Negli ultimi anni l’approccio condiviso allo sviluppo locale proprio del distretto biologico si è notevolmente diffuso in Italia. In particolare, nuovi partenariati sono sorti sotto l’impulso, da un lato, delle prime esperienze di successo e, dall’altro, dalla crescente attenzione che le politiche hanno iniziato a rivolgere ai biodistretti, diventati per la prima volta un soggetto riconosciuto dello sviluppo rurale nel 2009, con l’emanazione della legge regionale n. 66/2009 della Regione Liguria.
Da allora altre tre Regioni hanno provveduto a normarne le attività, a cui è seguito il primo riconoscimento nazionale con la legge 205/2017, che ha istituito i distretti del cibo “al fine di promuovere lo sviluppo territoriale, la coesione e l’inclusione sociale, favorire l’integrazione di attività caratterizzate da prossimità territoriale, garantire la sicurezza alimentare, diminuire l’impatto ambientale delle produzioni, ridurre lo spreco alimentare e salvaguardare il territorio e il paesaggio”.
Il Piano Strategico Nazionale per lo sviluppo del sistema biologico (2016), inoltre, ritiene che i biodistretti siano strategici nel favorire lo sviluppo del settore biologico mediante un approccio integrato alle politiche e un elemento da valorizzare nell’ambito del rafforzamento istituzionale delle azioni di ricerca e trasferimento dell’innovazione.
Il nuovo regolamento sull’agricoltura biologica (Reg (UE) n. 848/2018), che diverrà operativo a partire dal I gennaio 2022, inoltre, introduce novità di rilievo, come la certificazione di gruppo, che possono agevolare il conseguimento degli obiettivi dei distretti biologici e le attività dei loro operatori.
I distretti biologici in Italia sono oggi almeno 51, tra costituiti e in via di costituzione, caratterizzati da un diverso livello di operatività e, quindi, capacità di influire sulle dinamiche territoriali (CREA – Bioreport, 2019). Nonostante la grande diversità che li contraddistingue (a livello di fabbisogni, strutture, obiettivi, maturità istituzionale), la loro rilevanza è ormai tale che le future politiche di sviluppo rurale non potranno più non tenerne conto.
Già da questa programmazione, infatti, alcuni di essi hanno dimostrato di saper proporre un approccio innovativo ai problemi degli spazi rurali, basato sui valori dell’agricoltura biologica e dell’agroecologia, al punto che, osservando l’operato dei distretti più attivi e strutturati, si può dire che questi abbiano anticipato alcuni dei temi cardine della nuova PAC, come, per esempio, l’approccio territoriale all’agricoltura biologica, l’empowerment delle comunità locali e la funzione sociale dell’agricoltura.
La PAC post 2022 attribuisce un posto di primo piano all’incremento della sostenibilità del settore agricolo, che, insieme allo sviluppo economico e sociale delle aree rurali e alla competitività delle aziende agricole, dovrebbe contribuire in maniera più efficiente al raggiungimento degli obiettivi ambientali e climatici dell’Unione europea.
Nella comunicazione della Commissione The European Green Deal (CE, 2019), che fissa al 40% la quota delle risorse finanziarie complessivamente destinate alla PAC a favore dell’azione per il clima e l’ambiente, l’agricoltura biologica viene promossa in termini sia di offerta (aumento della SAU biologica, a livello europeo, fino al 25% della superficie agricola entro il 2030) sia di domanda (ad esempio, fissando una più favorevole percentuale d’IVA per frutta e ortaggi biologici).
Anche la strategia Farm to Fork (CE, 2020), componente essenziale del Green Deal europeo, punta ad accrescere la sostenibilità del sistema agroalimentare europeo attraverso obiettivi ambientali e sociali da conseguire entro il 2030, congiuntamente alla promozione di consumi alimentari sostenibili, all’intensificazione della lotta contro gli sprechi alimentari, alla realizzazione di maggiori investimenti in ricerca e innovazione e alla promozione della transizione verso sistemi alimentari sostenibili a livello globale.
La sfida posta dalla futura PAC in termini di obiettivi ambiziosi di sostenibilità dei sistemi agroalimentari risiede anche in un nuovo modello di attuazione (new delivery model), che tende a superare quello tradizionale basato su regole, controlli e sanzioni con uno più incentrato sui risultati della spesa, anche attraverso l’adozione di approcci più innovativi, creativi e potenzialmente più efficaci, tra cui i progetti agro-ambientali collettivi.
Questo tipo di progetti, in linea con i principi della transizione agroecologica, non può prescindere dall’adozione di azioni coordinate e collettive tra gli agricoltori che operano in una stessa area (Vanni e Viganò, 2020), così come riconosciuto dalla Commissione europea nelle raccomandazioni per i Piani Strategici della PAC di tutti gli Stati membri.
Per favorire la concentrazione territoriale dell’agricoltura biologica, infatti, pone enfasi sull’importanza degli approcci di tipo territoriale, collettivo e partecipativo, di cui i biodistretti sono uno dei possibili esempi. Considerato il riconoscimento, già nell’attuale periodo di programmazione, della rilevanza degli approcci cooperativi e partenariali in materia agro-ambientale nell’incentivare la diffusione di buone prassi nella gestione delle risorse naturali a livello territoriale, anche nel prossimo periodo di programmazione un forte accento sarà posto sugli impegni di gestione portati avanti sotto forma di approcci locali, integrati o cooperativi e sugli interventi basati sui risultati (COM(2018) 392, art. 65, punto 7).
Si tratta di un aspetto che apre la strada a un ruolo specifico per i distretti biologici. L’importanza dell’approccio cooperativo per affrontare le sfide dello sviluppo rurale viene ribadito spesso nella proposta di regolamento sul sostegno ai piani strategici della PAC (Com(2018) 392 final), che suggerisce di allargare il suo campo di azione ai “piccoli comuni intelligenti” e all’“agricoltura sostenuta dalla comunità” (COM(2018) 392 final, considerandum 45) (Vanni e Viganò, 2020).
L’esperienza maturata fino ad oggi in alcuni distretti biologici sta dimostrando come questi siano in grado di operare come agenti dell’innovazione nei loro territori, portando avanti iniziative di formazione/informazione e di cooperazione non solo per la diffusione delle pratiche agro-ambientali ma anche per l’adozione di innovazioni dirette a ridurre l’impatto negativo dell’agricoltura sull’ambiente e sul clima.
Ne sono una dimostrazione, per esempio, i Gruppi Operativi a cui alcuni biodistretti hanno partecipato, anche in qualità di capofila, contribuendo ad aggregare il partenariato attorno ai problemi di sostenibilità locale o portando i fabbisogni delle aziende biologiche o in conversione (Sturla et al., 2019b).
Subordinatamente al riconoscimento giuridico dei biodistretti da parte delle singole Regioni o dello Stato, si auspica quindi che questi possano essere riconosciuti tra i soggetti prioritari nell’assegnazione delle risorse del prossimo Piano Strategico Nazionale, perché in grado non solo di favorire un potenziamento dei benefici dell’agricoltura biologica, incoraggiandone la concentrazione territoriale ma anche di aggregare i diversi attori dello sviluppo locale attorno a obiettivi di sostenibilità condivisi.