Conoscete il detto: “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”? Lo inventò un gastronomo e scrittore francese dell’800, Jean–Anthelme Brillat–Savarin. Egli pensava che il modo di mangiare delle persone fosse diverso a seconda della loro classe sociale (nobili, classe media, contadini) e che quindi, sapendo che cosa mangiava una persona si potesse capire chi egli fosse.
In effetti il cibo è un forte segno di identità; esso, assieme alla lingua, alla religione, alle tradizioni, alle espressioni artistiche, rappresenta la cultura di un determinato luogo, in un determinato tempo. Il cibo è allo stesso tempo qualcosa che crea amicizia, sintonia, unità (ad esempio tra gli abitanti di un certo Paese) e qualcosa che crea differenza, distanza, difficoltà a comunicare. Questo si comprende ancora meglio se si confronta un’epoca con un’altra. Per fare degli esempi, le tavole degli antichi egizi erano imbandite con cibi diversi dai nostri: non conoscevano lo zucchero; gli alimenti si potevano salare solo con i sali minerali; non mangiavano il maiale, benché lo allevassero, e non conoscevano ancora i fagioli o la pasta.
Le uova si sono cominciate a utilizzare come alimento solo dopo l’anno 1000, mentre solo nel 1800 le popolazioni ebbero la possibilità di consumare grandi quantità di latte, grazie alla scoperta da parte di Pasteur della tecnica della pastorizzazione per abbattere i batteri contenuti negli alimenti. Inoltre, per ritornare a Savarin, vi sono sempre state grandi differenze, in tutte le epoche, e in parte anche nella nostra, tra l’alimentazione delle classi benestanti e quella dei poveri, e perfino tra quella delle donne e quella degli uomini.
Nella nostra società, tuttavia, per effetto della globalizzazione, si assiste ad un mescolamento continuo di cibi, culture e tradizioni. Gli americani usano il termine di melting pot, cioè “crogiolo”, il contenitore in cui si versavano i metalli per farli fondere. Questo mescolamento globale a volte, però, può scatenare reazioni opposte: proprio perché si è più vicini, più simili gli uni agli altri, si può avvertire il pericolo di perdere la propria identità, i propri diritti; si tende allora ad accentuare le differenze, a rivendicare le proprie origini e identità peculiari, legate ad un territorio, ad un periodo storico.
Questo è il paradosso in cui viviamo: da una parte ci sentiamo e siamo cittadini del mondo, sempre connessi, informati immediatamente su ciò che accade dalla parte opposta del pianeta; dall’altra, però, vorremmo affermare la nostra unicità, che si manifesta attraverso il modo di vestire, un prodotto o un piatto tipico, una sagra o una festa patronale, o il mantenimento del dialetto locale.
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