La coltura promiscua, base strutturale della diversità frutticola, sta a indicare la presenza di più specie nella stessa unità colturale, struttura tipica delle agricolture tradizionali. A partire dal periodo dell’anteguerra si può notare come la coltura promiscua ceda il posto in breve tempo alle cosiddette colture specializzate con progressione quasi matematica (Bevilacqua, 2003). Dal 1950 al 1969 le colture specializzate hanno avuto un dinamismo che le ha portate a stabilizzarsi intorno al milione di ettari; la coltura promiscua, invece, è passata dai quasi 3 milioni di ettari del 1950 a 1,6 del 1969. Il mutamento risulta di facile comprensione se si analizza il fenomeno per coltura: il pesco, a esempio, passa nello stesso periodo da 32 a 80 mila ettari in coltura specializzata e da circa un milione d’ettari del 1950 ad appena 125 mila ettari in coltura promiscua.
Stessi mutamenti si hanno per il pero, per il quale la coltura promiscua passa, nel periodo considerato, da quasi 2 milioni ad appena 256 mila ettari (la coltura specializzata invece cresce di quasi 8 volte). I dati sono riferiti al 1969 in quanto l’Istat, a partire da quella data, non ha più censito tali categorie.
Senza entrare nel merito della questione, è evidente che questi mutamenti compromettono in maniera drastica la multiforme varietà biologica della nostra frutticoltura tradizionale: benché sia stata interessata tutta la Penisola, vi sono contesti e regioni ove il fenomeno è stato particolarmente intenso. I contesti più coinvolti sono stati le zone agricole in cui erano storicamente presenti particolari contratti come la mezzadria e la colonia; di conseguenza le regioni più interessate sono state quelle meridionali in quanto la struttura produttiva era costituita fondamentalmente dall’albero (olivo e fruttiferi vari): la cosiddetta agricoltura alberata. Vite e olivo erano spesso elementi di caratteristiche consociazioni che sono diventate
vere occasioni di reddito per tante generazioni di contadini meridionali. Ma tutto questo non bastava a sfamare, c’era bisogno di frutta e, quando era possibile, si associavano le vigne con peschi, susini e fichi; oppure tra gli stessi filari di vite si seminavano ceci, fagioli, piselli.
Nel Settentrione, così come nel Mezzogiorno, il bisogno primario era terra da seminare: allora il fruttifero animava il campo di cereali, di foraggere, di leguminose e lo si ritrovava lungo i margini degli stessi o interposto, in file regolari, creando un’altra caratteristica sistemazione: il seminativo arborato che ha connotato tanta parte del paesaggio agrario italiano; famose ancora oggi le alberate o le piantate delle dolci colline venete o della pianura padana. Tutto questo disegno è il frutto di secolari fatiche di contadini (mezzadri e coloni) che dovevano condividere il prodotto prima con i loro proprietari e poi riuscire a garantirsi l’autosostentamento. Ecco le ragioni delle tante specie di frutta e della forte diversità all’interno d’ogni specie: c’era la mela che maturava a maggio, quella di giugno, quella d’agosto, di settembre: in tal modo si garantiva la presenza di nutrimento in un ampio arco dell’anno. Il gioco di colori che ne derivava non poteva che creare tratti “artistici”, motivo d’ispirazione dell’arte italiana.
L’entità della perdita di biodiversità vegetale è accertata nei cereali, mentre è poco noto quanto la stessa abbia colpito l’arboricoltura (Bevilacqua, 2003): sono quasi scomparse dalla tavola e dalla coltura tante specie di cosiddetti frutti minori quali a esempio i gelsi neri, i corbezzoli, le carrube, i sorbi, gli azzeruoli, i cornioli e il fico, elemento quest’ultimo tipico della frutticoltura del Sud. Il cambiamento ha interessato principalmente specie a ciclo breve come pesco, susino e ciliegio, e ha influito meno su specie più longeve quali l’olivo.
Per il pero, le statistiche ufficiali, almeno agli inizi degli anni Novanta del ‘900, elencavano circa 30 varietà, ma nei mercati oggi ne troviamo al massimo sei, che costituiscono circa l’80% di tutta la produzione. Esse hanno nomi curiosi, come Abate Fetel, William, Conference, Kaiser, Decana del Comizio e Passa Crassana, perché molte di loro non sono italiche.
Per il melo, la situazione è ancora più drastica poiché l’80% dei frutti che mangiamo e coltiviamo sono riconducibili principalmente a tre sole varietà.
In merito alla vite la riduzione delle varietà coltivate parte già dal dopoguerra e investe particolarmente le uve da tavola. I primi dati parlano di oltre 200 varietà (Confederazione Agricoltura, 1930); mentre oggi quasi il 90% delle uve da tavola sono rappresentate dalle note Uva Regina e Uva Italia, i due terzi delle quali provengono dalla Puglia.
Per i vitigni da vino, il dato di riferimento è la prima catalogazione ufficiale effettuata dal Ministero dell’Agricoltura (1896) nella quale si scopre una straordinaria diversità di vitigni che interessavano tutte le aree agricole italiane, dalle Alpi alla Sicilia. In questi ultimi decenni è nota la graduale estensione di grandi vigneti monocolturali, rappresentati essenzialmente da Sangiovese e Montepulciano, vitigni che dominano in Puglia, antica e grande terra di vino, come in Toscana o in Piemonte.
Anche l’olivo, elemento fondamentale del paesaggio agrario mediterraneo, non è rimasto estraneo a questo mutamento: le sue tipiche consociazioni con il mandorlo, il carrubo e il fico rappresentano ormai relitti di paesaggio. In definitiva i frutti antichi sono genotipi adattati a specifici contesti ambientali in risposta all’assurda pretesa dell’agricoltura industriale di poter coltivare in tutta Italia lo stesso vitigno o la stessa varietà di ciliegio; tra i frutti antichi si possono trovare cultivar resistenti agli stress ambientali, ovvero piante come albicocchi e peri che fruttificavano senza ricorrere all’irrigazione. Queste antiche varietà hanno particolari resistenze alla malattie e pregevoli sapori, sono selezioni la cui diffusione spesso non supera il territorio di un comune o addirittura di una contrada e che solo in pochi casi hanno superato i confini di una regione o di una provincia.
Cosa rimane di questa diversità? Quella che troviamo sulle nostre tavole è veramente ai minimi termini. Ma, fatto importante, la quantità disponibile è ancora notevole, se si considera quella conservata presso il Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura (Ente CRA); secondo i dati di quest’ultimo dovrebbe trattarsi di 3065 varietà, in prevalenza di melo (834), pesco (601), pero (444) e ciliegio (442). Si tratta di centri di ricerca che svolgono da tempo un ruolo importante nella conservazione di tali risorse genetiche.
In merito ai frutti antichi può essere importante la conservazione ex situ del germoplasma, ma sembra più funzionale una conservazione in azienda (oggi si usa dire on farm), meglio se motivando i contadini a continuare a coltivarli, premessa per mirate politiche di valorizzazione. Non si dimentichi che gran parte delle tipicità ortofrutticole italiane, quelle che poi diventano marchi Indicazione Geografica Protetta (IGP) e Denominazione di Origine Protetta (DOP), sono ecotipi locali, insomma frutti antichi.
Fonte @ISPRA Quaderni Natura e Biodiversità – Frutti dimenticati e biodiversità recupera
1.4 L’Agrobiodiversità – ViVi Green
SARDEGNA Vite Selvatica – ViVi Green
SICILIA Uva di Corinto – ViVi Green
Il frutto antico, degno di nota, è un vitigno conosciuto come uva di Corinto. È un vitigno bianco, legato alla provincia di Catania e in particolare al comune di Belpasso, dove è stato ritrovato dal ricercatore Alfio Bruno, membro dell’Associazione Patriarchi della Natura. Si tratta di un’uva antichissima ritenuta estinta dagli esperti già da secoli.
CALABRIA Arancia di Trebisacce – ViVi Green
BASILICATA Arancia staccia – ViVi Green
CAMPANIA Pera Lardara – ViVi Green
LAZIO Uva pergolese di Tivoli – ViVi Green
MOLISE Mela Limoncella – ViVi Green
In questa regione si può raccogliere una testimonianza della diversità della melicoltura storica italiana e in particolare di quella che caratterizzava le aree interne dalle Marche alla Puglia. La mela in questione è la Limoncella tipica del Molise.
ABRUZZO Pera trentatré – ViVi Green
MARCHE Mela Uncino – ViVi Green
UMBRIA Olivo di Trevi – ViVi Green
Olivo millenario che vegeta nel comune di Trevi in provincia di Perugia, località Bovara. Questa pianta è conosciuta anche come Olivo del Vescovo od Olivo di Sant’Emiliano, a memoria del martire che la leggenda racconta sia stato legato al suo tronco e poi ucciso, nel 303 d.C..
TOSCANA Uva Vecchia – ViVi Green
VENETO Pero festaro – ViVi Green
FRIULI VENEZIA GIULIA Pero da Sidro – ViVi Green
Varietà di pera molto antica, prodotta da grandi alberi dalla chioma voluminosa, coltivati vicino alle case dei contadini friulani, ove ancor oggi se ne possono trovare diversi esemplari. Presso la stazione ferroviaria di Camporosso, in provincia di Udine, la strada è fiancheggiata da peri secolari di dimensioni ragguardevoli che ne fanno un bellissimo viale
Trentino Alto Adige Vite di Prissiano – ViVi Green
VALLE d’AOSTA Vite di Farys – ViVi Green
LIGURIA Olivo di Sanremo – ViVi Green
Questo olivo antichissimo si trova in provincia di Imperia nel comune di Sanremo in località il Poggio, presso Villa Minerva. Si tratta di un esemplare unico sia per le sue grandi dimensioni che per l’età; è fra i più vecchi della Liguria ed è caratterizzato da un’antica ceppaia da cui si dipartono due grandi tronchi.
LOMBARDIA Fico brianzolo bianco – ViVi Green
PIEMONTE Castagno di Mindino – ViVi Green
2.0 Testimonianze di frutti antichi nelle regioni italiane – ViVi Green
1.9 I frutti antichi. Le conoscenze disponibili: stato dell’arte in Italia – ViVi Green
La frutta antica è anche argomento di numerosi progetti didattici maturati in ambito scolastico, nonché di molti convegni sulla biodiversità tanto che, non mancano occasioni per sollevare il problema della salvaguardia di questo prezioso materiale genetico attraverso mostre mercato.
1.8 I frutti antichi e il paesaggio – ViVi Green
1.7 I frutti antichi e i cambiamenti climatici – ViVi Green
1.6 I frutti antichi, risorse per un’agricoltura sostenibile – ViVi Green
1.5 La coltura promiscua, la base strutturale della diversità frutticola – ViVi Green
La coltura promiscua, base strutturale della diversità frutticola, sta a indicare la presenza di più specie nella stessa unità colturale, struttura tipica delle agricolture tradizionali. A partire dal periodo dell’anteguerra si può notare come la coltura promiscua ceda il posto in breve tempo alle cosiddette colture specializzate con progressione quasi matematica