Borghi d’Italia
Sulle remote origini di questa cittadina due studiosi locali, Padre Serafino Tamborrini di Ostuni (1784 – 1869) e il medico locorotondese Angelo Convertini (1771 – 1831), ci hanno tramandato delle ricostruzioni storiche troppo spesso condite di mitologia.
Entrambi fanno risalire la fondazione di Locorotondo, parecchi secoli prima di Cristo, ad opera di una colonia di greci Locresi: il primo basandosi sulla corrispondenza tra le parole Locorotondo e Locros-Tonos, ovvero forti locresi, afferma che un gruppo di questi, reduci dalla guerra di Troia, si sia qui stabilito dopo essere approdato sulle coste pugliesi a causa di un naufragio l’altro chiama in causa Periandro Locrese fondatore appunto della città di Locreuse, ossia Locorotondo.
Al di là di queste ipotesi fantasiose, col tempo si è venute dimostrando che il sito ove ora sorge la nostra cittadina ha effettivamente avuto una frequentazione umana antichissima.
Nel 1840 furono rinvenute numerose tombe durante i lavori di scasso per l’impianto di un vigneto, a poche centinaia di metri dall’abitato, in direzione dell’attuale strada per Martina, Franca. Recenti raccolte di reperti di superficie (frammenti, ceramiche, utensili e monete) databili dal III millennio al VII secolo a.C., in contrada Grofoleo, nonchè il rinvenimento ne 1989 nella stessa area, di resti crollati di parti strutturali in pietra, mattoni e tegole assieme a tre rudimentali bothroi (fosse votive a forma di ellissi, fatte di pietra conficcate nel terreno) hanno fornito una serie di preziosi dati, su cui gli studiosi hanno potuto formulare delle prime ipotesi: dopo sporadiche presenze umane non stazionarie, legate alla caccia e alla pastorizia, tra il IX e il VII secolo a.C. si sono formati piccoli agglomerati pedemontani per la conduzione agricola del sito ed un centro più importante arroccato sulla collina.
Così conformato l’insediamento deve aver mantenuto poi una certa importanza legata al fatto di trovarsi al crocevia a due antiche arterie fondamentali durante la colonizzazione romana: una, partendo dal brindisino, andava ad innestarsi sulla via Appia presso Altamura, e l’altra dalla costa ionica portava a quella opposta dell’Adriatico.
Dobbiamo arrivare fino al XII secolo (1195), in piena dominazione sveva, per trovare il primo documento in cui si fa espressa menzione del luogo detto Rotondo e della sua chiesa di San Giorgio, una sorta di agglomerato rurale, feudo del monastero benedettino di Santo Stefano tuttora esistente sulla costa presso Monopoli. Tuttavia la formazione del feudo, e quindi dell’abitato di Locorotondo, potrebbe intendersi essere avvenuto verso gli ultimi decenni dell’anno Mille, in concomitanza con la nascita del suddetto monastero voluto da Goffredo I, conte di Conversano.
Verso la metà del 200 l’originario feudo crebbe gradualmente fino a diventare un vero e proprio casale, che rimase sottomesso alla giurisdizione del monastero di Santo Stefano fino al 1385. Durante quegli anni Locorotondo venne coinvolta nelle turbolente vicende che compromisero la stabilità del monastero entrato in lite col confinante Principato di Taranto, il quale spingeva gli abitanti dei casali ad affrancarsi dalle dipendenze dei monaci.
Nel 1314 i Benedettini alla guida di Santo Stefano furono rimpiazzati dai Cavalieri Gerosolimitani che adattarono quella sede a vero e proprio fortilizio. Verso la metà del `300 Locorotondo insieme ad altri casali di Santo Stefano, venne occupata da Gualtieri VI di Brienne, duca di Atene, divenuto famoso per le sue imprese politico-militari tra cui il breve governo di Firenze dal 1342 al 1343.
Riottenuto il feudo locorotondese nel 1358 i Gerosolimitani lo tennero fino al 1385 circa. Dalla fine del `300 a gran parte del ‘400 Locorotondo divenne possedimento di una delle più grandi famiglie dell’epoca nel meridione, i Del Balzo Orsini, il cui dominio su di esso si arrestò con Aghelherto, coinvolto nella cosiddetta congiura dei baroni (1486) tramata ai danni della corte Aragonese. In tale occasione, in seguito ad una ridistribuzione dei feudi, il paese fu donato a Pirro Loffredo, di un’altra potente e nobile famiglia napoletana.
Dopo pochi anni (nel 1499) passò ai Carafa; fu in questo periodo che probabilmente vennero eretti le mura e il castello, rimasti intatti fino alla metà dell’800. Ma nel 1530 ai Carafa, infedeli agli aragonesi, successero nuovamente i Loffredo.
Questi governarono solo su metà del paese; l’altra metà fu tenuta prima dai Figzceroa e quindi dai Borrassa, i quali nel 1604 comprarono anche la restante parte.
Nel corso del `500 il paese conobbe un certo sviluppo: la popolazione subì un notevole incremento; nel 1566 l’Università (l’autorità municipale di allora) riscattò dalla Regia Corte le terre circostanti, da cui si sarebbe poi originato il territorio demaniale; sorsero nuove Chiese (San Rocco, Madonna della Catena), altre (San Giorgio, Madonna della Greca) furono ampliate ed arricchite; nel 1560 venne eretto un Ospedale-ospizio presso la Chiesa Madre, mentre uno già esisteva accanto alla chiesa di Santa Maria dei Martiri, fuori le mura; nel 1587 il medico locorotondese Antonio Bruno diede alle stampe, in Napoli, un’opera filosofica sulla immortalità dell’anima.
Nel 1645 i Borrassa, che erano stati sicuramente i peggiori tra i baroni di Locorotondo, furono costretti a vendere il feudo, per debiti contratti con l’Ospedale e Banco della SS. Annunziata in Napoli, ai duchi Caracciolo di Martina Franca, cui rimase fino all’inizio dell’800. Nel corso del 1799 Locorotondo venne coinvolta, come gran parte dei comuni vicini, nel moto rivoluzionario che investì il meridione in seguito alla proclamazione della Repubblica romana (1798) e di quella Partenopea (1799).
La storia e l’arte
La nascita del comune di Locorotondo risale intorno all’anno 1000; situato anticamente ai piedi della collina, successivamente in cima, Locorotondo fu ampliato dopo un miracolo di san Giorgio Martire, così la devozione del popolo fece costruire una cappella al Santo, che verso l’inizio del Seicento fu proclamato patrono del paese. Al 1645 risale la prima edizione del Dono, che fino allo scorso secolo era la consegna di un cero e di una corona di fiori alla Sacra Immagine del Santo Patrono;
dopo vari scontri durante il periodo fascista , successivamente la cerimonia si trasformò nella consegna delle chiavi d’oro della città al Santo nel giorno del 22 aprile (la cerimonia esiste ancora oggi).
Dopo il periodo napoleonico con 2000 abitanti , il popolo necessitava una nuova chiesa più grande, così sopra le macerie della cappella di San Giorgio fu costruita la maestosa chiesa madre per volontà del signore benefattore Vitantonio Montanaro, che chiese la progettazione dell’edificio attuale all’architetto barese Giuseppe Gimma, dedicata sempre al Santo Patrono e della Madonna della Greca (la festa liturgica cade il 26 di agosto).
La grande devozione di San Rocco si deve al fatto che il santo liberò il popolo dalla peste del . Nel 1782 fu costruita la preziosa statua del santo pellegrino con le offerte del popolo , realizzata in manifattura in Napoli , qualche anno dopo venne costruita la chiesa al Santo, nel 1787 fu proclamato primo santo patrono di Locorotondo, dal 1897 si istituì la fiera di san Rocco tra le più sostituendo una più sobria dell’Assunta molto remota, che si tiene ancora oggi nei giorni della festa patronale di san Rocco, nel 1957 si ideò la gara pirotecnica dedicata a San Rocco, tra le più antiche del Sud Italia.
Il 1597 , venne trovato un quadro in periferie del paese della Vergine Maria, della Madonna rimane il segno di una catena, così nasce il culto della Madonna della Catena, qualche anno dopo viene costruita una chiesa nella campagna dove venne ritrovato il quadro, successivamente la Chiesa viene denominata in Basilica Minore di Maria S.S. della Catena, si unisce al culto della Madonna, quello dei santi Cosma e Damiano, grazie alla forte devozione della vicina Alberobello di cui sono patroni.
Cosa Vedere
Chiesa Madre
Questo monumentale edificio, dedicato a san Giorgio martire, venne eretto fra il 1790 ed il 1825 sulla stessa area ove già si erano succedute altre chiese, sempre sotto lo stesso titolo, di cui una menzionata intorno al 1195 ed un’altra, cinquecentesca, demolita per far posto all’attuale.
Ciò che più colpisce dell’edificio è certamente il suo aspetto grandioso: all’esterno la sua figura si eleva al centro ed al di sopra delle case; la facciata di gusto neocinquecentesco, ospita nel timpano una raffigurazione in rilievo di san Giorgio con il drago ed ai due angoli, più in basso, le due statue di san Pietro e san Paolo, scolpiti da un ignoto artista locale di fine `700 su modellini di creta forniti da uno scultore milanese.
Sulle lesene della cantonata destra ad angolo con via porta Nuova, si possono osservare alcune piccole croci incise; ciò può essere collegato, probabilmente, alla posa della prima pietra e delle reliquie di san Vittorio e san Ruffino quando si diede inizio ai lavori il 19 luglio del 1790. Sempre all’esterno ai quattro angoli del primo ordine del campanile (alto, da terra, ben 47 metri e mezzo) si possono osservare quattro statue lapidee di figure femminili identificate con le tre Marie e la Veronica, qui collocate dopo lo smembramento del polittico della Pietà esistente nella vecchia Chiesa Madre.
La cupola centrale (alta oltre 35 metri compresa la lanterna), dal profilo piuttosto schiacciato, era un tempo rivestita con tegole in terracotta invetriata a più colori; danneggiata da un fulmine abbattutosi sulla chiesa nel 1841, esse non furono mai più ripristinate, facendo perdere quel contrasto cromatico fra la cupola ed il resto che doveva rivelarsi assai efficace.
La costruzione si articola su di una pianta a croce greca inscritta della quale però si privilegia l’asse longitudinale dell’ingresso mediante un accentuato prolungamento del presbiterio absidato e di poco rialzato sul sottostante Soccorpo. Ad una certa sobrietà neoclassica degli elementi architettonici si accompagna un corredo figurativo rinascimentale e barocco proveniente, in gran parte, dalla precedente chiesa.
Sulla parete di sinistra, entrando, vediamo aprirsi il cappellone del SS. Sacramento nel quale si conservano due coppie di paraste sulle cui facce sono scolpite, in 42 riquadri, scene dal Vecchio e Nuovo Testamento; queste paraste, insieme all’ormai smembrato polittico della Pietà, ornavano la precedente ed omonima cappella eretta tra il 1591 ed il 1613. Sulla parete dell’absidiola vi è un’Ultima Cena del pittore napoletano Gennaro Maldarelli (del 1841)che ne produsse una pressocchè identica per la Matrice di Mottola (Taranto).
Il ricchissimo altare barocco, a commessi marmorei, fu realizzato (assieme a quelli che vedremo più avanti dell’Assunta e del SS. Rosario) nel 1764 nella bottega napoletana del Lamberti.
Ai lati dell’ingresso del suddetto Cappellone vi sono, a sinistra un seicentesco affresco staccato, raffigurante san Donato vescovo, proveniente dalla chiesa inferiore della Madonna della Catena, ed a destra, una settecentesca tela raffigurante Cristo Risorto d’autore ignoto. Accanto troviamo l’altare dell’Assunta, ornato da una tela del Maldarelli del 1838.
Appena entrati in Sagrestia, nella stanza a sinistra sono conservate tre antiche tele, databili tra la fine del `600 e l’inizio del `700 d’autore sconosciuto, raffiguranti un Cristo flagellato, il Martirio di san Bartolomeo e L’incredulità di san Tommaso.
Nella nicchia vi è un lavabo barocco in marmo anch’esso superstite dalla precedente chiesa. I busti lignei seicenteschi collocati sopra la porta della Sagrestia raffigurano i santi Vittorio e Ruffino. L’altare maggiore, anch’esso in marmi policromi, è opera dello scultore napoletano Fedele Caggiano del 1861; il grande quadro di San Giorgio, sul fondo dell’abside, sempre del Maldarelli è del 1841.
Restando sul presbiterio, nelle due nicchie ai lati dell’altare moderno (tutto il presbiterio è stato modificato negli anni `70) vi sono, in una, la statua lignea di san Giorgio Martire e, nell’altra, una serie di antichi reliquiari. Accanto alla porta d’accesso alla scala del Soccorpo (Cripta) vi è l’altare di san Michele, databile intorno al 1819, con una tela raffigurante la Caduta degli angeli del 1839, sempre del Maldarelli.
Segue lo splendido altare del SS. Rosario del 1764, ove la plastica materia marmorea sale sulla parete come cornice alla grande tela centrale della Madonna del Rosario tra santa Caterina da Siena e san Domenico ed a 15 ovali raffiguranti i Misteri opera del pittore martinese Francesco De Mauro del 1769.
Prima di uscire, ai lati dell’ingresso centrale troviamo due nicchie contenenti, una il Battistero in marmo policromo dello scultore napoletano Fedele Caggiano, l’altra, un monumento marmoreo intitolato a Vitantonio Montanaro, fondatore della nuova chiesa, eseguito dalla scultore napoletano Pasquale Ricco. Entrambe le opere risalgono alla metà dell’Ottocento.
La serie di tredici quadri, dislocati sulle pareti in alto in vari punti della chiesa, sono del pittore contemporaneo Onofrio Bramante.
Accanto alla Chiesa madre, sulla sinistra vi è la Chiesa dell’Annunziata.
Chiesa Madonna della Greca
Sull’origine di questo splendido edificio non si hanno notizie certe; il primo riferimento documentario risale ad appena il 1520, mentre è, invece, evidente da una serie di elementi che la sua fondazione sia avvenuta molto tempo prima.
Ha un impianto basilicale a tre navate di cui la centrale, composta da quattro campate, con volte ogivali a crociera costolonata, e le due laterali da mezze botti rampanti ed unghiate. La volta a semibotte è propria delle chiese pugliesi a cupola in asse, che ebbero diffusione nel XII e nel XIII secolo. Tuttavia i due sistemi sono presenti accostati molto raramente, nella chiesa di san Benedetto a Brindisi ed in quella di santa Maria de Colonna a Trani.
I pilastri polistili presentano anch’essi una serie di caratteristiche, oltre alla differenza di altezza e di composizione: le basi sono classicheggianti con ornamenti di protezione in rilievo (fiori, animaletti, conchiglie) negli angoli; i fusti delle semicolonne sono privi di apofige, ovvero di quello sguscio di raccordo alle due estremità; i capitelli sono un compendio di motivi classici, (volute, cornucopie, scanalature) figurine varie (putti, sirene, bifide, corpi d’uccello con volti umani) ed altri elementi del mondo animale e vegetale. Al di sopra essi sono completati da aggettanti cornici intagliate in vario modo. All’esterno, il portale lunettato rinascimentale presenta due capitelli probabilmente di altra provenienza che dimensionalmente mal si combinano con il resto.
La porta a lunetta rialzata, murata sul lato sinistro della chiesa, è chiaramente di tipo medievale. Il suo orientamento collegato alla parete interna messa di fronte ad essa e recante un frammento d’affresco potrebbe far pensare ad un nucleo primitivo più piccolo con asse ruotato di 90 ° rispetto all’attuale. A questa costruzione se ne aggiunse un’altra in un periodo a cavallo tra la fine del `300 e l’inizio del ‘400 a giudicare dalla prevalenza della maniera costruttiva gotica.
Ha una facciata molto semplice, a capanna con spioventi laterali, secondo la tripartizione interna; nei secoli essa ha subito alcune modificazioni come si può osservare in una veduta settecentesca dell’architetto e pittore francese J.L. Desprez, il rosone attuale è opera recente (1981) del maestro locorotondese Domenico Rosato, un leggerissimo traforato realizzato sul modello di quello della cattedrale d’Acquaviva delle Fonti. In alto nella posticcia cornice campeggia un piccolo rilievo di scarso valore; esso ricorda l’affidamento della chiesa alla nascente Confraternita di san Rocco, che nel 1893, convinta di prendersi cura del sacro edificio, l’alterò in più parti. Venne in tale occasione decorato a vari colori l’interno, disfatto il cimitero antistante la chiesa (gran parte dei lastroni tombali sono oggi visibili sul tetto) e distrutto l’antico rosone; le due statue, assai logorate dei santi Pietro e Paolo, all’estremità della facciata, già all’ingresso del suddetto cimitero, provengono da un trittico esistente nell’abside della vecchia Chiesa Madre. Sempre all’esterno uno sguardo alla tipica copertura a cummerse incrociate dalla bella ed articolata disposizione delle lastre calcaree (chiancarelle).
Oltre alla ricchezza di motivi presenti sui capitelli, la chiesa conserva al suo interno una preziosa testimonianza della scultura rinascimentale pervenuta fino a questa estremità della provincia meridionale. Primo fra tutti si impone il Polittico dell’altare centrale intitolato alla Madonna delle Rose (la mensa è posteriore) con le immagini (da sinistra) di santa Lucia, san Pietro, la Madonna con il Bambino. san Paolo e sant’Oronzo (o san Donato). Al di sopra dei bassorilievi dei quattro Evangelisti e, nel timpano, la consueta immagine dell’Eterno Padre benedicente. L’impostazione architettonica è anch’essa molto buona nonostante alcune incongruenze proporzionali o quelle dovute a sicure manomissioni. Accanto a questo sorge sulla destra, nel vano un tempo adibito a coro, il prezioso e splendido bassorilievo della Deposizione nel Sepolcro formante con quattro colonnine dal fusto riccamente decorato con testine di angeli e tralci di vite, un altare composto in epoca moderna. In origine è molto probabile che questa lastra scolpita ornasse il paliotto della mensa originale posta sotto il suddetto polittico.
Nel nicchione posto sud fondo della navata sinistra vi è il gruppo scultoreo di san Giorgio (1559) che insieme a tutto il cassettonato proviene dall’antica e omonima cappella che sorgeva nella vecchia Chiesa Madre. Il gruppo quindi completato da una sottostante mensa in forme barocche, venne qui montato nel 1794. Accanto a questo altare è posta una statua di un notabile personaggio in atto di preghiera, del quale nonostante la dicitura PIRRUS TARENT. PRINC. P.S.D. FF è dubbia l’identità: potrebbe egli essere Pirro del BalzoOrsini, principe di Altamura, ritenuto per tradizione colui che nel 1480 fece costruire la chiesa; oppure Ottaviano Loffredo, barone di Locorotondo verso la metà del ‘500 e probabile committente del polittico, visto che il piccolo stemma messo al centro del fregio dello stesso è proprio di quella casata.
Sul tratto murario della navata centrale si intrevede ancora un frammento d’affresco, di una Madonna con Bambino, forse fulcro della primitiva costruzione, avanti a cui sempre nel corso del `500 fu eretto un ciborio in pietra formato da un padiglione piramidale su quattro colonnine, delle quali restano alcuni frammenti scanalati ed i quattro accostati al paliotto della Deposizione. Inoltre attorno all’immagine suddetta vi erano a mo’ di cornice tredici riquadri a bassorilievo di cui nove sono tuttora collocati sulla parete a sinistra dell’ingresso.
La zona retrostante la parete con affresco, era un tempo completamente chiusa, con accesso dal coro, e serviva da sagrestia; il suo tratto murario esterno, come si vede, è stato ricostruito nel corso di un restauro risalente agli anni `60 quando vennero rimosse alcune superfetazioni. La statua lapidea posta sotto questa arcata è della Madonna delle Grazie e proviene dall’omonima cappella esistente nella distrutta Chiesa Madre.
La piccola acquasantiera a conchiglia posta subito dopo ci ricorda che l’arcata corrispondente era fino a gran parte del ‘700 un ingresso secondario che dava sul cortile pergolato adiacente la chiesa e comunicante con l’abitazione annessa. La chiesa così com’è oggi appare completamente spoglia di qualsiasi arredo sacro o accessorio; un tempo era ricchissima di ex-voto, di suppellettili sacre, tenuto anche conto che dalla metà del `500 sino alla fine dell’Ottocento tutte le nicchie perimetrali ospitavano ciascuna un altare. La loro distruzione ha significato la perdita delle opere d’arte che l’ornavano.
A sinistra della scalinata di via Giannone, poco più avanti troviamo la chiesa del Protettore del paese: san Rocco.
Chiesa di San Rocco
La prima menzione che si ha di una chiesa sotto questo titolo e nello stesso luogo ove sorge quella attuale, risale al 1568. Si trattava poco più di una cappella posta fuori delle mura, di circa sette metri per quattro, coperta da una lamia a spiculo, cioè da una volta a crociera e dalle caratteristiche architettoniche locali.
L’introduzione e la diffusione del culto di san Rocco a Locorotondo e la conseguente fondazione di una chiesa in suo onore si vuole siano avvenute in seguito allo scampato pericolo di un contagio da una epidemia di peste scoppiata tra il 1690 ed il 1691 in alcuni paesi costieri poco distanti da qui. Questa ipotesi comporta, però, una discordanza di date visto che una chiesa dedicata al Santo esisteva da almeno un secolo.
Secondo una credenza popolare, invece (sopravvissuta nella vicina città di Ceglie Messapica e raccolta dallo studioso Scatigna-Minghetti), pare che tutto ciò sia dovuto all’iniziativa di un devoto locorotondese, il quale avrebbe avuto una visione di san Rocco, presso una cappellina, sulla via del ritorno da un pellegrinaggio che l’uomo aveva compiuto presso la chiesa del Santo in quella città.
Nel 1804 la primitiva chiesa venne demolita per far posto alla nuova, a croce greca cupolata ed absidata, dalle forme più classiche. Dopo circa un settantennio (nel 1872) il nuovo edificio venne alterato con un avanzamento della parte anteriore di pochi metri oltre il filo stradale di via Cavour, allora detta Borgo San Rocco.
Ciò, se da un lato procurò un lieve aumento di spazio all’interno e la conseguente possibilità di erigere una cantoria giusto sopra l’ingresso, dall’altro significò la perdita dell’originaria facciata e, con essa, delle quattro statue degli Evangelisti qui collocate dopo lo smembramento del cinquecentesco polittico liteo della Pietà, esistente nella vecchia Chiesa Madre.
Lo storico locorotondese Angelo Convertini (1771-1831), parlando della nuova chiesa di san Rocco, ovviamente prima dell’ampliamento del 1872, la descrive costruita sul modello della Rotonda di Roma (Pantheon).
E’ ovvio, che non potendoci essere alcuna similitudine con il celebre edificio a livello planimetrico, lo storico ha sicuramente inteso riferirsi alla veduta frontale dell’edificio che si ha scendendo dall’attuale Corso Umberto I. Di conseguenza possiamo immaginare che la facciata del 1804 fosse caratterizzata da uno schema classico a timpano impostato su un colonnato, il tutto di altezza inferiore all’attuale, in modo da lasciare in vista la retrostante cupola su tamburo.
All’interno sono da vedere: a destra dell’ingresso una tela del 1854 raffigurante san Rocco fra gli appestati, del pittore locorotondese Antonio Vito Semeraro; più avanti, sempre a destra, vi è una tela settecentesca di san Francesco da Paola e di fronte un’immagine di santa Irene sullo sfondo di una città costiera. Ai lati del presbiterio troviamo due statue in pietra smaltata, di fattura settecentesca di sant’Eligio e sant’Oronzo. Nella nicchia sovrastante l’altare è collocata la statua lignea di san Rocco, scolpita a Napoli nel 1792.
Proseguiamo sempre per via Cavour fino al piccolo largo di Bonifacio, dove, a sinistra, si conserva un tratto di strada con antiche case a cummerse che costituivano l’antico borgo sorto lungo la via che uscendo dalle mura conduceva, attraverso largo san Pietro, verso la chiesa della Madonna della Catena.
Chiesa dell’Addolorata
E’ questa la nuova chiesa costruita nel 1858 dall’omonima confraternita, formatasi tra la fine del `600 e l’inizio del `700 sotto il titolo della Vergine dei sette dolori. La precedente sede era costituita dall’oratorio che sorgeva, sovrapposto a quello dell’Annunziata, tra le attuali via Giannone (scendendo a sinistra della Chiesa Madre) e quella che, appunto, è denominata via Addolorata vecchia.
Posto proprio a ridosso dell’ingresso da corso XX settembre alla parte vecchia del paese, l’attuale edificio venne eretto sull’area del vecchio castello, abbattuto nel 1855 per iniziativa di un sacerdote, il quale intendeva far sì che il popolo potesse cancellare il ricordo delle numerose ingiustizie e dei delitti perpetrati nei sotterranei del castello, per tutto il periodo in cui Locorotondo fu sottomesso ai duchi Caracciolo di Martina Franca. Dalle poche fonti, scritte ed iconografiche, possiamo tuttavia tentare una ricostruzione del castello: già menzionato all’inizio del 500, era di forma quadrata, con bastioni angolari quadrati. Era armato di ben 13 pezzi di artiglieria ed aveva al centro una torre più alta e sicuramente più antica. E proprio sotto la Sala delle Armi era collocata la cosiddetta fossa di Luogorotondo come veniva chiamata la prigione sotterranea a cui abbiamo accennato.
La chiesa non presenta alcun particolare architettonico significativo. Al suo interno conserva una serie di statue lignee policrome, alcune tardosettecentesche (Addolorata, san Gaetano, Madonna della Croce) provenienti dalla precedente, altre due, nelle nicchie all’ingresso, sono del 1888 e firmate da un artista locale, Antonio Semeraro; tra queste riveste un certo pregio quella di san Antonio Abate. Nella sagrestia è conservata una piccola statua lapidea smaltata, ancora di san Antonio Abate, antica e di ignota provenienza. All’esterno, agli angoli della facciata si osservano due antiche sculture, forse raffiguranti le sibille Delfica ed Eritrea, un tempo esistenti ai piedi del polittico della Pietà nella vecchia Chiesa Madre.
Chiesa Madonna della Catena
Una prima chiesa venne costruita, quasi certamente, nel 1597 in seguito alla diffusione di una voce secondo la quale in quel luogo doveva trovarsi l’accesso ad una grotta ove si custodiva un’antichissima raffigurazione della Madonna. Man mano che la notizia richiamava un gran numero di persone, si diffondeva anche la voce di miracoli e di grazie che nel frattempo sembravano avvenire. Il clero del tempo, assecondando la devozione popolare, ordinò uno scavo nel punto indicato in cui venne effettivamente scoperto l’accesso ad una grotta che, però non conteneva alcuna immagine sacra. Nonostante ciò l’affluenza del popolo era tale che alla fine si decise di erigere una vera e propria chiesa, essendo divenuto quel luogo venerabile. Il primitivo edificio, una Cappella grotta, era quasi per intero scavato nella roccia, aveva due altari e vi si accedeva per due scale di una decina di gradini ciascuna. L’unica parte costruita in muratura era costituita dalla volta e dal tetto, che assieme ai due ingressi alle scalinate doveva elevarsi di un paio di metri sul piano stradale di allora (corrispondente all’attuale piazzale sottostante a destra dell’odierna chiesa). Poco tempo dopo la sistemazione della chiesa, nell’anno 1600 venne eretto l’edificio che tuttora esiste e che doveva servire come ospizio ai pellegrini ed abitazione per coloro che si prendevano cura del santuario. Poichè l’altare di quella prima chiesa venne ornato da un quadro raffigurante la Madonna con la catena al collo, da allora essa assunse tale titolo.
A causa dei danni provocati dalla forte umidità, quel quadro fu ben presto sostituito da una nuova e più grande icona raffigurante la Madonna con quattro santi, anch’essa andato perduto. Nel 1790 furono scoperte altre grotte che dalla cappella sotterranea si dipanavano ancor più in profondità e che almeno in parte ancor oggi esistono. Nel 1866 la chiesa divenne proprietà del Demanio; nel 1886, ormai in gran parte crollata venne acquistata da un privato cittadino che a sua volta la cedette nel 1890 ad un sacerdote, il quale si impegnò affinchè la chiesa potesse essere riaperta al culto. Così nel 1897 ad opera della signora Angela Sforza, venne eretto un nuovo santuario, costituito da una nuova cappella-grotta e da una chiesa superiore. Quella inferiore, tuttavia inglobò parte dell’antica chiesetta, tuttora visibile. In concomitanza con tale rinnovamento venne istituito anche il culto dei santi Medici Cosma e Damiano per i quali oggi la chiesa è anche nota.
La chiesa superiore è composta da un unico grande vano a croce greca, appena leggibile, cupolato ed absidato. Il presbiterio fino a qualche decennio fa era arricchito da un vecchio altare; sull’abside è conservato un frammento d’affresco raffigurante la Madonna della Catena; nella piccolissima sagrestia si conserva murato un frammento di nicchia proveniente dal polittico della Pietà nella scomparsa chiesa Madre del `500.
Dalla stessa sagrestia si scende per una scala nella Chiesa Inferiore. In questa distinguiamo la residua parte antica da quella nuova, regolare, avente i sostegni angolari dei quattro grandi archi strutturalmente coincidenti con quelli superiori. Di particolare effetto virtuosistico è la grande volta a vela fortemente ribassata. In essa si scende anche da un piazzale esterno. In questa si conservano, oltre al recente altare del Crocefìsso, un altro tardosettecentesco, sulla cui parete è postauna nicchia rinascimentale incorniciata da eleganti lesene ornate a candelabra ed una statua della Madonna con Bambino, in pietra policroma, il tutto proveniente dalla vecchia Chiesa Madre del `500. A destra di questo, al di sopra di una rudimentale mensa di altare si intravvedono tracce di antiche pitture murali raffiguranti forse un san Biagio. Da qui venne asportato il san Donato conservato, oggi, nella Chiesa Madre. Della vecchia Cappella-Grotta, oltre alle due pareti superstiti ed all’immagine, si conservano le acquasantiere sullo scalone ed un piccolo tondo a bassorilievo della Madonna col Bambino murato sulla porta d’ingresso esternamente al suddetto scalone.
Cappella Santa Maria del Soccorso
Il piccolo edificio eretto verso il 1630 dall’allora barone di Locorotondo Gian Giacomo Borrassa con i fondi che in verità gli erano stati affidati da un privato cittadino, affinchè restaurasse l’omonima e più antica cappella, che esisteva a pochi metri dall’attuale. La sua facciata semplicissima è adorna solo di un portale lunettato, al di sopra del quale vi è ancora un cartiglio con lo stemma dei Borrassa, e dal piccolo campanile a vela. All’interno troviamo una tela grande posta sull’altare, raffigurante La Vergine del Soccorso, fatta eseguire in occasione della nuova edificazione dal barone suddetto, ed una piccola di san Vito, proveniente dalla vecchia chiesa dell’Annunziata.
Più avanti, sulla sinistra, ad angolo con via Morelli, ammiriamo una finestra ed un portale di genuino gusto rinascimentale, che campeggiano sulla bianca facciata di un palazzo signorile costruito nella prima metà del `500. Proseguendo sempre per la stessa via, ad angolo con via Eroi di Dogali incontriamo il settecentesco palazzo Comunale.
Chiesa di San Nicola
Eretta negli anni immediatamente precedenti il 1666 per iniziativa di un notabile locorotondese, la chiesetta risulta stretta dalle alte case circostanti che lasciano in vista solo la scarna facciata, della cui originaria forma a capanna con campanile a veletta rimane ben poco. La struttura architettonica del piccolo edificio è assai semplice, ma originale: un’unica aula coperta anteriormente da una volta a botte e, per il resto, da una cupoletta con tamburo su pennacchi. Ad una tale combinazione corrisponde all’esterno l’innesto di un tetto a falde con il cono di un trullo, entrambi embricati con le consuete chiancarelle calcaree, il cui grigrio ben contrasta con il bianco della calce.
All’interno l’interruzione del cornicione sulla prima arcata, la presenza di una lesione in corrispondenza di esso lungo tutta la curvatura della botte ed alcune diversità di esecuzione della muratura, fanno pensare a momenti diversi di edificazione. Il piccolo ambiente sopraelevato, in corrispondenza della seconda arcata destra, era destinato a sagrestia e probabilmente, essendo aperto, fungeva anche da cantorìa. Questo e l’attiguo braccio a destra dell’altare, avevano un tempo una diversa altezza e di conseguenza due tetti distinti all’esterno perpendicolari all’asse della chiesa.
La superficie interna è in gran parte occupata da una ricca decorazione pittorica che segue una precisa divisione tematica: all’imposta della botte troviamo dieci riquadri (cinque per lato) con scene della vita e dei miracoli di san Nicola di Mira e, al di sopra, un teoria di angeli musicanti; sui pennacchi sono rappresentati i quattro Evangelisti, tra cui vale la pena notare il San Luca, pregevole per la inconsueta versione iconografica: questa vuole, infatti, che il santo venga raffigurato mentre ritrae una Madonna con Bambino in quanto risulta l’unico nei Vangeli che si soffermi a parlare di Maria. Ma al di là del fatto allusivo, ciò sembra corrispondere alla tradizione diffusa dai primi cristiani secondo la quale San Luca avrebbe effettivamente dipinto la prima immagine della Madonna, la cosidetta Hodigitria di Costantinopoli, in cui il bambino compariva sul braccio sinistro della Madre, così come nella raffigurazione del nostro pennacchio. Nei quattro scomparti del tamburo trovano posto scene di vita eremitica e, sull’intradosso della cupola, una serie festosa di cherubini ruotanti attorno all’Eterno Padre raffigurato con il classico globo terracqueo ed in atto benedicente. L’unico altare esistente è ornato da una edicola a timpano spezzato, di gusto tardo cinquecentesco, nel cui riquadro sono raffigurati san Nicola e sant’Antonio da Padova in adorazione del SS. Sacramento; la scena è completata in basso da un piccolo angelo che reca tre sfere d’oro, simbolo del santo di Mira. Infine ricordiamo, sempre sulla botte, la piccola balaustra circolare dipinta a trompe-l’oeil, ovvero a visione prospettica, entro cui è posta una colomba. Questa considerevole produzione pittorica può essere datata in parte negli anni immediatamente successivi all’edificazione, in parte (pennacchi, cupola e quadro dell’altare) tra fine `700 ed inizi `800.
Sotto la seconda arcata di sinistra è collocato un basso rilievo in pietra della Crocefissione molto più antico della chiesa (la copertura policroma è più recente), e che mostra di essere stato tagliato in più parti; ciò avvalora una notizia riportata da uno storico dell’Ottocento secondo il quale esso venne ritrovato in una grotta nei dintorni di Locorotondo.
Proseguendo, sbucheremo nella piazza Fra G. Andrea Rodio dominata all’imponente facciata della Chiesa Madre.
- Palazzo DeBernardis.
- Centro storico con le tipiche “Cummerse” (case con tetto a spioventi costruite con pietre a secco).
- Torre dell’Orologio del 1819, dove in origine risiedeva il primo Municipio di Locorotondo .
Il territorio
Il paese sorge su un rilievo posto a 410 metri s.l.m. appartenente a quel complesso altopiano collinare detto Murgia (dal latino murex:murice, poi roccia aguzza) e più specificatamente al ramo sud-orientale denominato comunemente Murgia dei Trulli, caratterizzato da rilievi poco accentuati (intorno ai 400 metri s.l.m.) e dalle tipiche costruzioni coniche.
La Murgia dei Trulli partendo dall’insellatura di Gioia del Colle degrada poi lentamente in direzione Sud-Est fin oltre Ostuni, mentre sul versante adriatico tronca bruscamente con il terrazzamento di Fasano, su quello ionico invece, si stempera discretamente nell’anfiteatro Tarantino.
Geologicamente la Murgia fa parte di un grande basamento calcareo denominato tecnicamente Piattaforma Carbonatica Apula formatesi in un mare poco profondo nel Cretaceo superiore (da 120 a 65 milioni di anni fa) per la lenta sedimentazione di fanghi carbonatici, di micro e macrorganismi acquatici favorito dall’enorme pressione marina.
Nel Terziario (da 65 a 2 milioni di anni fa) la Piattaforma emerge dalle acque subendo processi di modellamento marino ed atmosferico e continui movimenti tettonici. Nel Quaternario (circa 2 milioni d’anni fa) la Murgia lentamente si riabbassa, con il conseguente avanzamento del mare, che la ricopre quasi totalmente, in questa fase si innescano i processi carsici che continuano fino ai nostri giorni. Nell’ultimo periodo del Quaternario, il Pleistocene (meno d’un milione di anni fa) sulla Piattaforma si sedimentano depositi argillosi e sabbiosi che non interessano, strettamente, il nostro territorio.
In sostanza l’altopiano Murgiano, così com’è adesso, affiora dal sottostante basamento per uno spessore che varia dai 2.000 metri del Calcare di Bari fino ai 1.000 metri del Calcare di Altamura, formato dall’alternarsi di strati calcarei con strati calcareodolomitici; per quanto riguarda le nostre zone, Valle d’ Itria e Canale di Pilo (Pirro), sembrano essere Formate in maniera discontinua da due unità litostratigrafiche dette Calcare di Fasano (associabile alla parte superiore del Calcare di Bari) e Calcare di Ostuni (assimilabile a quello di Altamura). La morfologia dell’altopiano Murgiano sud-orientale, è assai discontinua con depressioni vallive (polje), ondulazioni poco elevate, grotte, gravi e doline.
L’idrografia superficiale è assente, fortemente compromessa dal carsismo; il prodotto del disgregamento calcareo, le terre rosse, (il Bolo) addolciscono in qualche modo la natura aspra e rocciosa della Murgia continuamente dilavata dalle acque piovane, rendendola, quindi, meno refrattaria alle coltivazioni agrarie. Nel sottosuolo, l’Idrologia è rappresentata da una cospicua falda acquifera che mentre sul litorale marino si presenta a pochi metri di profondità, nell’entroterra si insinua repentinamente tra gli strati calcarei, sprofondando di qualche centinaio di metri sotto il livello del mare.
I dintorni
La campagna locorotondese presenta un aspetto fortemente antropizzato ed un paesaggio agrario assai variegato. Fra macchie di lecci e fragni, ultimi esempi di ampie e remote boscaglie, tra vigneti, uliveti ed orti sorgono vividi testimoni d’un equilibrato rapporto tra la casa dell’uomo e la natura circostante i trulli.
Interessanti sono gli agglomerati di trulli intorno ad uno spazio di uso comune, detto jazzile, dove la gente vive in una piacevole e proficua unità di vicinato, usufruendo di comuni servizi quali la cisterna dell’acqua, la piccola chiesa, l’aia ed in tempi più recenti la scuola e qualche negozio. Un’articolatissima rete viaria, quasi tutta asfaltata, si sviluppa all’interno del territorio permettendo di raggiungere facilmente ogni angolo di questa animata campagna.
Itinerari Turistici
1° ITINERARIO: Contrade Sant’Elia, San Marco, Lamie Affascinate, Marziolla, Tuttulmo e Cinquenoci
Questo primo percorso si snoda tra le contrade certamente più popolose dell’agro Locorotondese. Imbocchiamo la via comunale Sant’Elia da piazza Marconi e proseguiamo per San Marco, dove sorge in alto l’antica ed omonima chiesetta.
CHIESA RURALE DI SAN MARCO Di una antica chiesa intitolata a Santa Maria Maddalena nel casale Iuniano (o Cignano), corrispondente all’attuale abitato di San Marco, si fa menzione in una bolla di Papa Alessandro III, del 1179. contenente l’elenco dei beni e delle terre possedute dall’abbazia di San Giovanni delle Fosse, nella diocesi di Monopoli. Poco prima del 1687 la chiesa venne riedificata per iniziativa di un vescovo monopolitano, che la intitolò a San Marco.
Durante l’episcopato di Mons. Palmieri (1893-1905) la chiesa con l’intera frazione omonima passò alla diocesi di Ostuni, cui Locorotondo apparteneva già da tempo.
La chiesa così come oggi si presenta ha una pianta a croce latina, ove i tre bracci principali hanno lunghezza quasi identica. Tale impianto è, in realtà, il risultato di una fusione tra corpi di fabbrica di epoche diverse; il braccio sinistro, più basso e più irregolare, sembra chiaramente la parte più antica, mentre il corpo centrale e braccio destro risultano degli ampliamenti successivi.
L’edificio ha i caratteri architettonici tipici delle chiese minori urbane e rurali: murature imbiancate a latte di calce, tetti a falde dalla copertura a chiancarelle calcaree e la consueta facciata a capanna con campanile a vela.
All’interno di un certo interesse sono la statua lignea di san Marco Evangelista ed un busto in cartapesta raffigurante sant’Agostino Vescovo.
L’altare principale in marmo proviene dalla chiesa urbana dell’Addolorata; la statua lignea che si trova sulla nicchia posta sopra l’altare è della Maddalena, opera di uno scultore di Ortisei, sostituisce la vecchia risalente al 1847 ed andata dispersa. All’esterno, proprio sulla picco-la finestra della facciata, è murato, parzialmente celato dalla calce, un riquadro in pietra su cui è inciso un semplicissimo motivo romanico geometrico, proveniente probabilmente dalla primitiva chiesa.
Poco distante dalla chiesa, vicino alla strada, è riconoscibile l’imboccatura dell’antica ed enorme cisterna del casale; una lapide posta all’interno di essa, ma non visibile, ci ricorda che il pozzo venne restaurato nel 1557 dal vescovo monopolitano Ottaviano Preconio; più in basso s’impone per la maestosa cupola a trullo la nuova chiesa di San Marco realizzata nel 1973 dall’architetto romano Mario Berucci, noto per i suoi contributi allo studio di questa tipica costruzione pugliese e per aver progettato altri edifici simili in località vicine.
La nuova chiesa cerca di riassumere in chiave moderna le forme architettoniche locali. Poco distante dal centro abitato della contrada ritroviamo alcuni tipici esempi di agglomerati di casedde (trulli) quali: Ianelle, Sardedda, Musorusso ed ovvia-mente San Marco Basso. (v. cartina) Da San Marco potremo scendere verso il Canale di Pilo, impropriamente detto di Pirro, ai confini del territorio locorotondese. Questa fertile vallata d’origine carsica era attraversata, come si apprende da vecchie carte topografiche, dal corso del fiume Carta a carattere torrentizio.
Sempre da San Marco proseguendo in direzione di Laureto, nota località di villeggiatura in agro di Fasano, giungiamo alla frazione di Lamie Affascinate ove accanto a vetusti trulli dalle forme più articolate. sorgono case a cummerse a due piani con scale esterne tipicamente urbane. Poco distante, alle spalle, per lo spiazzo di Marziolla; passando per uno stretto e polveroso tratturo scopriremo, isolato fra i campi, accanto ad un fragno il trullo ritenuto il più vecchio in base alla data, (1509 o 1599) incisa sull’architrave del suo ingresso. Il visitatore noterà facilmente la differenza strutturale c formale tra questo e i trulli finora osservati. All’interno del trullo la volta conica si eleva in forma circolare sin dal terreno, realizzando un tuttuno fra le pareti del vano e la copertura vera e propria: l’ingresso, assai profondo. denota il notevole spessore della sua muratura: il rudimentale taglio delle chiancarelle di copertura ed infine il cono piuttosto ribassato.
Da Marziolla sulla via di ritorno per Locorotondo ci soffermeremo, presso la masseria di Tuttulmo, dove si osservano i resti di una chiesetta.
CHIESETTA DIRUTA DI TUTTULMO. Si tratta di una piccola cappella rurale ridotta a poco più di un rudere, che sorge accanto alla masseria omonima, a circa tre chilometri dal paese. La sua costruzione dovrebbe risalire al secolo XVII, ad opera di una famiglia della vicina Martina Franca, gli Ulmo, che la intitolarono sicuramente alla Madonna del Carmelo. Del grazioso edificio restano in piedi la facciata a capanna con campanile a veletta e la parte posteriore. Si nota tuttavia, che era costituita di un unico ambiente, coperto da una volta a botte estradossata da due falde a chianche (cummersa).
La parete di fondo appare interamente affrescata, seppure pesantemente rovinata dalle intemperie. In alto, nella nicchia poco profonda che si apre sull’altare, ora nascosto dal crollo, vi è una immagine della Madonna del Carmelo, e, in basso, separata dalle nuvole, una scena della vita di sant’Agostino.
A questo punto, lasciandoci guidare dal panorama di Locorotondo che si staglia poco lontano, rientreremo in paese.
2° ITINERARIO: Contrade Acchino, Seicaselle, Pantaleo, Lamie di Olimpia, Tumbinno, Zuzzù, Serafino e Trito
La prossima escursione avrà come meta finale le estreme colline orientali del territorio locorotondese. Da via Cisternino in corrispondenza della scalinata di via Trinchera inoltriamoci per la via comunale di Acchino e per la seguente contrada Seicaselle fino a quella di Pantaleo. Si suppone che quest’ultimo toponimo derivi da un monastero benedettino di cui si fa menzione nei documenti, ma del quale non si è trovata alcuna traccia. Tuttavia lungo la strada esiste una chiesetta ottocentesca intitolata a quel santo. Poco più avanti sulla sinistra l’omonima masseria riconoscibile dalla chiesetta e dai numerosi trulli immersi tra maestosi alberi di fragno. Il ritrovamento nel secolo scorso di pozzi, di fondamenta di edifici, di tombe nel sito ove ora sorge la masseria aveva fatto ipotizzare che qui fosse ubicato il casale di Lauretello cui era probabilmente annesso il suddetto monastero. Da Pantaleo si prosegue fino alla frazione denominata Lamie di Olimpia da cui, passando accanto alla Chiesa, imboccheremo la via che conduce in località Tumbinno. Mentre proseguiamo ci accorgiamo del graduale mutamento del paesaggio: alla natura trasformata dall’uomo con le sue coltivazioni e le sue abitazioni si sostituisce quella originaria della macchia mediterranea. Eccoci finalmente a Zuzù, località dal curioso nome, sugli ultimi crinali della Murgia Locorotondese che degrada repentinamente fino alla vasta distesa di ulivi (marina di Fasano) e di qui sino al mare.
3° ITINERARIO: Contrade Sant’Anna, Grofoleo, Ritunno e Serra
Questa terza passeggiata intende condurci intorno alla collina della Serra, dirimpetto al paese: per arrivarci basterà imboccare la via per Martina Franca (S.S. 172) da dove gireremo per contrada Grofoleo e quindi superata la ferrovia, raggiungeremo Ritunno.
In questa zona, osservando la cartina ci soffermeremo presso alcuni tipici jazzélere Fischiello e Ritunno Piccolo.
Proseguendo sempre verso destra percorre-remo un lungo tratto di strada fiancheggiata da ombrosi fragni e continuando ci porteremo alla sommità della collina della Serra: piacevole località di villeggiatura a ridosso del paese, dove si potranno apprezzare magnifiche vedute.
DOVE ALLOGGIARE
DOVE MANGIARE
NUMERI UTILI
COME ARRIVARE
Come arrivare a Locorotondo:
Con l’auto
DA BARI:
– prendendo la S.S. 16 (litoranea) con uscita a Fasano imboccando la 172 Dir.;
– prendendo la S.S. 100 con uscita a Turi per poi immettersi sulla S.S. 172 (Statale dei trulli);
DA TARANTO:
– percorrendo la statale 172 Dir.;
DA LECCE-BRINDISI:
– percorrendo la S.S. 379 con uscita Fasano, quindi immettersi nella 172 Dir.
Con l’aereo
AEROPORTO:
– Bari-Palese, km 75 circa;
– Brindisi-Casale, km 55 circa;
Con il treno
FERROVIE:
– Da Bari, tramite le Ferrovie dello Stato (F.S.) fino alla stazione di Fasano (Fasano Scalo) dalla quale si procede a mezzo Pullman per 13 km circa;
– Da Bari, anche tramite la Ferrovia Sud-Est (F.S.E.) fino alla stazione di Locorotondo;
– Da Taranto tramite la Ferrovia Sud-Est (F.S.E.) fino alla stazione di
Locorotondo;
– Da Lecce-Brindisi tramite le Ferrovie dello Stato (F.S.) fino alla stazione di Fasano (Fasano Scalo) dalla quale si procede a mezzo Pullman per 13 km circa;
Con la nave
PORTO:
– di Bari, Km 70 circa
– di Brindisi, Km 60 circa