Area Naturale Marina protetta Penisola del Sinis Isola di Mal di Ventre

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Natura e Ambiente

Il territorio di Cabras è ricco di peculiarità, suggestioni e valori che la sua gente è riuscita a conservare fino ai giorni nostri. Poterlo fruire in maniera sostenibile, lasciandolo in eredità alle generazioni future, è la strada che si deve percorrere tutti insieme. Il mare, le spiagge, le falesie, gli stagni, le distese di macchia mediterranea, l’ambiente rurale, rappresentano le diverse “facce” attraverso le quali il Sinis di Cabras si presenta e si propone agli occhi dei visitatori.

È anche vero che alcune zone interne della penisola del Sinis sono state intensamente trasformate dalle attività agricole e dalle bonifiche che ne hanno alterato la naturalità, che rimane alta lungo la costa e sulle piccole isole, e in buona parte delle lagune.

Proprio su queste aree ad elevata naturalità si sviluppano le pagine che seguono per far comprendere meglio il Sinis di Cabras ed il suo straordinario patrimonio ambientale e naturale. Un percorso che partendo dal mare aperto consente di scoprire ambienti differenti, tuffandosi nei fondali prospicienti la penisola del Sinis, passando per il sistema delle piccole isole, la costa alta e bassa ed arrivando, attraverso l’ambiente rurale, alle lagune e agli stagni.

Un paesaggio di Sardegna che per ragioni ambientali ed antropiche appare differente e originale rispetto alle altre zone dell’isola. Un territorio che mostra allo stesso tempo gli aspetti della trasformazione operata dall’uomo e un carattere selvaggio.

La fascia costiera

Nei tratti bassi della costa si sono deposte spiagge di sabbia e granuli di quarzo ai quali si deve buona parte della fama del Sinis di Cabras. I tratti alti, le falesie, sovrastano il mare come il naturale belvedere che si affaccia sull’Isola di Mal di Ventre, verso nord, e sullo scoglio del Catalano, verso sud.

Il mare

L’ambiente marino è caratterizzato da fondali con un’elevata varietà morfologica che favoriscono la presenza di specie che concorrono a costituire habitat differenti, come le praterie di Posidonia oceanica, le formazioni a precoralligeno e coralligeno e che giocano un ruolo fondamentale nella varietà del paesaggio e dei colori.

Nella piattaforma sommersa antistante la penisola del Sinis, parallelamente alla costa, è si sviluppa una lunga dorsale che collega l’isola di Mal di Ventre, caratterizzata da grandi blocchi granitici e anfratti, allo scoglio del Catalano, con profonde falesie di rocce basaltiche e piccole grotte. Salendo dalla profonda scarpata, verso la costa, arrivando nei bassifondi costieri si individuano antiche linee di spiaggia, corrispondenti alle pause della risalita del livello del mare, avvenuta a partire da circa diciottomila anni fa, le più recenti delle quali sono parallele alla costa di San Giovanni di Sinis.

Il relitto di Mal di Ventre

Una delle scoperte subacquee più significative effettuate nelle acque sarde è quella di un relitto di età romana individuato nel braccio di mare compreso tra la costa del Sinis e l’isola di Mal di Ventre. Nell’area, che doveva essere assai pericolosa per la navigazione a causa del forte vento di maestrale, sono presenti altri relitti antichi, ma il più importante, soprattutto per la natura del carico, è certamente quello che dal 1989 al 1996 è stato oggetto di numerose campagne di scavo da parte della Soprintendenza Archeologica di Cagliari e Oristano.

La nave, situata ad una profondità di circa 30 m, a 6 miglia dalla costa e a poco più di 1 miglio a sud-est dell’isola, deve la sua straordinaria importanza al carico costituito interamente da lingotti in piombo, unico caso finora documentato nel Mediterraneo. Dello scafo, con dimensioni presunte di m 36 x 12, si conserva solo la porzione centrale della chiglia, per un’estensione di circa 10 m2, parte che dopo l’affondamento della nave risultò protetta dal carico. La mancanza, al momento dello scavo, di risorse finanziarie sufficienti per il trattamento e la conservazione dei resti lignei ha suggerito l’opportunità di lasciare lo scafo in posto e di rimandarne il recupero ad un momento più favorevole.

Il carico è costituito da un migliaio di lingotti, tutti di sezione trapezoidale, con il dorso superiore leggermente bombato e del peso di circa 33 kg. Molti di questi si trovavano ancora allineati e impilati nella posizione originaria in quanto l’affondamento della nave avvenne lentamente e senza il rovesciamento del carico. I lingotti, in buono stato di conservazione, sono dotati di cartiglio epigrafico che riporta il nome dei produttori; la maggior parte degli esemplari si riferisce ai fratelli Caio e Marco dei Pontilieni, ma sono ben documentati anche i bolli di Quinto Appio e Lucio Carulio Hispalo. Sono invece episodiche le attestazioni di altri produttori quali Planio Russino, Gneo Atellio, Caio Utio, Marco o Lucio Apinario e Pilon.

Presso il relitto sono state recuperate anche quattro grandi ancore in piombo, con ceppi decorati con un delfino e quattro astragali contrapposti a rilievo, oltre che tre ancorotti, due scandagli, tubi in piombo, uno dei quali riferito alla pompa di sentina, alcune macine in pietra vulcanica, un discreto numero di anfore da trasporto, scarsa ceramica d’uso, una lucerna, una daga in ferro, circa 200 proiettili in piombUna grande ancora in ferro localizzata al centro dello scafo è stata lasciata in posto. È probabile che le anfore recuperate, in numero non rilevante, contenessero le riserve alimentari di bordo; in una di queste sono state rinvenute numerose lische di pesce con parti ossee della testa e della coda.
Molto abbondanti sono risultati i chiodi, in parte riferiti alla struttura dello scafo, altri interpretati come riserva di bordo per eventuali riparazioni; sono stati individuati ancora infissi nella chiglia 12 chiodi di grandi dimensioni, alcuni lunghi circa 80 cm.
In collaborazione con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e con il CNR di Pisa sono state effettuate numerose analisi sui lingotti che hanno dimostrato l’eccezionale purezza del metallo, riconducibile alle zone minerarie della Sierra di Cartagena, in Spagna, area da cui verosimilmente proveniva la nave; rimane invece dubbia la destinazione finale della stessa. Dal punto di vista cronologico, l’esame complessivo dei materiali ha consentito di datare l’affondamento tra l’89 e la metà del I sec. a.C.o e una moneta.

Tharros

La città di Tharros, ubicata all’estremità meridionale della Penisola del Sinis, venne fondata alla fine dell’VIII sec. a.C. o nel VII da genti fenicie in un’area già frequentata in età nuragica. Su una delle tre colline su cui sorge la città, la più settentrionale, nota con il nome di Murru Mannu (in sardo “grande muso”), è visibile ancora oggi un importante villaggio protostorico (età del Bronzo medio-recente) che doveva essere già abbandonato al momento dell’arrivo dei Fenici. I resti di un monumento nuragico sono stati riconosciuti alla base della torre spagnola del colle di S. Giovanni; altri due nuraghi si trovano sul Capo S. Marco, uno, detto Baboe Cabitza, nella parte più elevata dell’altura, l’altro presso l’insenatura di Sa Naedda.
L’arrivo dei Fenici e la fondazione della città coincidono con un momento di straordinaria attività coloniale da parte dalle genti levantine nel Mediterraneo centro-occidentale. Non conosciamo tuttavia l’esatta ubicazione dell’abitato fenicio, che certo non doveva avere carattere di monumentalità, mentre abbiamo testimonianze di ambito funerario e votivo. Fin da questo periodo sono in uso contemporaneamente due necropoli, ubicate a una distanza di qualche chilometro l’una dall’altra: quella più nota è posta su Capo S. Marco, l’altra, mai indagata in maniera sistematica, si trova oggi all’interno del villaggio moderno di S. Giovanni di Sinis. Ci si chiede ancora la ragione di tale duplicità, non escludendosi la possibilità dell’esistenza di due centri abitati posti a distanza ravvicinata. Le sepolture, databili a partire dall’ultimo quarto del VII sec. a.C., sono nella maggior parte dei casi semplici fosse scavate nella sabbia o nella roccia affiorante in cui sono deposti i resti incinerati dei defunti, accompagnati da corredi ceramici e da oggetti personali……….. Continua a leggere sul Sito Ufficiale

Le torri costiere

Tra il XVI e il XVII secolo, su iniziativa della Corona di Spagna, furono costruite lungo il litorale del Sinis di Cabras la torre di S. Giovanni, Torre Vecchia (o di S. Marco) e la torre del Sevo (Turr’e Seu). Come le altre torri costiere sarde, esse furono innalzate per proteggere le popolazioni locali dalle incursioni dei pirati e dei corsari barbareschi che provenivano dal vicino Nord-Africa………. continua a leggere

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