Carciofo alla maticella di Velletri PAT del Lazio

Prodotto Agroalimentare Tradizionale del LAZIO

Il carciofo, cotto alla brace, viene servito preferibilmente su una fetta di pane, che s’imbeve dell’olio di condimento residuo che cola dal carciofo stesso. A fine cottura, prima di essere servito, si eliminano le foglie esterne, di norma bruciate, in modo tale da scoprire la corona di foglie più interne, di cui si mordicchia la porzione basale più tenera.

Procedendo verso il centro del frutto, le foglie diventano totalmente commestibili e racchiudono il cuore del carciofo, la parte più tenera, che si può gustare in un sol boccone, eventualmente eliminando prima l’eccesso di condimento rimasto. Per la preparazione, viene impiegato il carciofo romanesco, che di norma si raccoglie nel periodo compreso tra aprile e maggio, quando la potatura della vite è appena terminata.

METODO DI PRODUZIONE

Si scelgono delle belle “mammole romanesche”, da cui si asporta quasi completamente il gambo, che vengono leggermente battute su un ripiano allo scopo di creare maggiore spazio all’interno. Dopodiché si riempiono con aglio fresco, foglioline di mentuccia selvatica, un pizzico di sale e si irrora il tutto con un’abbondante dose di olio extravergine di oliva. I carciofi, così preparati, vanno poi sistemati con cura, per ¾ del loro volume, nelle braci ardenti, ottenute esclusivamente dalla bruciatura dei sarmenti (fascine di tralci secchi ricavate dal legno di potatura della vite).

La cottura, che a seconda della grandezza dei carciofi richiede all’incirca due ore, deve essere ben controllata, modificando la posizione dei frutti, almeno un paio di volte, facendo attenzione che non si cuociano troppo: pena un’eccessiva secchezza e un sapore di fieno bruciato; oppure troppo poco, con il rischio di assumere un sapore erbaceo, poco invitante. Assolutamente proibito cuocere i “carciofi alla matticella” in un camino o in un luogo chiuso, poiché la brace ha bisogno di ventilazione naturale che contribuisce a conferire al piatto il suo tipico aroma.

CENNI STORICI

Nella città di Velletri si parla di “Carciofi alla matticella” da qualche centinaio di anni a questa parte: se ne trovano tracce su alcuni scritti dei Gesuiti che governarono Velletri sotto lo Stato della Chiesa; nei racconti dei nonni, che a loro volta riportavano testimonianze dei padri a cui erano pervenute dai propri avi, tramandate ai propri figli, di generazione in generazione.

La storia e la memoria ci insegnano che nel periodo in cui si conclude la potatura delle vigne e la raccolta dei sarmenti (tralci di vite) dai filari, riprende vita una delle più antiche e riconoscibili tradizioni della città di Velletri: “i carciofi alla matticella”. Profumatissime, e altrettanto buone, sono le “mammole romanesche”, presenti da sempre in ogni vigneto veliterno, a segnalare le testate dei filari, le cosiddette “capocciate”. Nel passato, quando i lavori nel vigneto venivano eseguiti interamente a mano, il contadino escogitava soluzioni ingegnose per ridurre la fatica e sfruttare al meglio i terreni a disposizione.

Tra queste la piantumazione dei carciofi alla testata dei filari, dove il terreno non veniva lavorato, con un duplice vantaggio: di non zappare la “capocciata” e quindi risparmiare la fatica e nel contempo assicurare ai carciofi, che notoriamente non amano le lavorazioni, la condizione ideale per produrre ottimi frutti in primavera. Nel periodo della potatura, nei vigneti confluivano in gran numero potatori e ‘opere’, ovvero braccianti. I primi tagliavano i sarmenti e le “opere” li raccoglievano legandoli in fascetti (matticelle) che sarebbero serviti in seguito per la cottura del pane, per alimentare il fuoco della cucina e del forno; mentre quelli di troppo venivano bruciati in grossi falò, la cui cenere, sparsa tra le viti costituiva un ottimo fertilizzante. In ricordo dell’antica tradizione, da almeno 30 anni, nel comune di Velletri si svolge la manifestazione del ‘Carciofo alla matticella’.

Territorio di produzione

Provincia di Roma: Velletri

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