Il numero dei distretti biologici in Italia è in crescita costante, al punto che, a Febbraio 2021, se ne contano sul suolo nazionale 51, già costituiti o in fase di costituzione, caratterizzati da diversi livelli di operatività, con una minoranza che già gode di un riconoscimento legale come distretto del cibo o garantito da una legge regionale.
Si tratta di una realtà molto variegata, che non si basa su un unico modello, se non quello genericamente riferito allo sviluppo locale basato sui valori dell’agricoltura biologica. Per fini puramente classificatori, è possibile comunque dividere i biodistretti italiani in due gruppi principali, che si distinguono soprattutto per il ruolo attribuito alle filiere biologiche nella strategia di sviluppo.
Il primo gruppo, formato esclusivamente dalle realtà afferenti alle Rete dei biodistretti AIAB, è accomunato da una definizione “marshalliana” di biodistretto, definito come “un’area geografica naturalmente vocata al biologico nella quale i diversi attori del territorio (agricoltori, privati cittadini, associazioni, operatori turistici e pubbliche amministrazioni) stringono un accordo per la gestione sostenibile delle risorse, puntando su produzioni biologiche che coinvolgono tutti gli anelli delle filiere fino al consumo”.
La definizione di AIAB pone l’accento sulla “vocazione al biologico” e identifica nell’“importanza delle filiere biologiche e la loro integrazione con altre filiere connesse, come turismo e artigianato” uno dei tre pilastri, assieme al coinvolgimento delle pubbliche amministrazioni e dei cittadini, su cui si basa l’azione del biodistretto. La rete AIAB conta 22 distretti attivi.
Il secondo gruppo può essere ricondotto alla definizione di “Eco-regione” fornita dall’Associazione Internazionale IN.N.E.R. (International Networks of Eco Regions) e comprende sia i distretti biologici che hanno aderito all’associazione sia quelli che non hanno alcuna affiliazione, ma che si riconoscono nei valori sottostanti una “Eco-Regione”.
Benché il termine “biodistretto” sia ormai entrato nel gergo dello sviluppo rurale italiano, IN.N.E.R. preferisce ricorrere al termine Eco-regione perché ha una valenza più “completa”, includendo anche la dimensione ecologica dello sviluppo territoriale (Zanasi et al., 2020). IN.N.E.R. definisce quindi l’Eco-regione come un “territorio nel quale si è costituita un’associazione formale senza scopo di lucro tra imprese, aziende agricole, cittadini/consumatori (anche in forma associata quale i gruppi di acquisto solidali), amministrazioni pubbliche locali, parchi nazionali e regionali, aree naturali protette, imprese commerciali, turistiche e culturali, associazioni sociali, culturali e ambientaliste.
Tutti si impegnano ad agire secondo i principi IFOAM ed i metodi di produzione e consumo biologico”. Come si vede, l’accento qui è posto sul coinvolgimento degli attori locali, mentre l’agricoltura biologica è richiamata solo per quanto concerne i valori di cui è portatrice. Occorre comunque notare in entrambe le definizioni che lo sviluppo locale integrato, partendo da valori condivisi, è l’obiettivo centrale dell’esperienza distrettuale.
Esiste infine una terza categoria di distretti biologici, trasversale alle due appena elencate, che include tutti i distretti che già godono di un riconoscimento legislativo, sia esso una legge regionale o la recente normativa nazionale sui “distretti del cibo” (art. 1, comma 499 della legge 205 del 27 dicembre 2017).
Attualmente i distretti appartenenti a quest’ultima categoria sono 10 (Tabella 1.1); come si vede, alcuni dei distretti riconosciuti dalle rispettive Regioni sono stati anche inseriti nel Registro Nazionale dei Distretti del Cibo. Due distretti biologici, il Distretto del cibo Sikania bio – mediterraneo in Sicilia e il Distretto agricolo biologico Casalasco-Viadanese in Lombardia, sono nati da partenariati appositamente costituiti per l’iscrizione al Registro Nazionale.
I distretti riconosciuti da una legge regionale devono rispondere a criteri parametrici più o meno stringenti, i quali testimoniano come le amministrazioni tendano ad avere una concezione “classica” (o economica) del distretto biologico, in cui la presenza di determinati requisiti produttivi costituisce la base per successive azioni di sviluppo.
La Legge Regionale 66/2009 della Regione Liguria, la più “severa” tra quelle emanate, prevede che un distretto biologico per essere riconosciuto goda dei seguenti requisiti:
- nell’area deve essere presente almeno il 13% degli operatori biologici regionali;
- i produttori devono rappresentare almeno il 75% del totale degli operatori biologici;
- l’incidenza percentuale delle aziende biologiche sul totale aziende agricole deve essere superiore a quella nazionale e regionale di almeno il 4%;
- l’incidenza percentuale della SAU biologica sul totale della SAU dell’area deve essere superiore di almeno il 6% a quella nazionale e regionale;
- il distretto deve insistere su una superficie complessiva minima di 250 Km2
Anche la legge Toscana prevede un minimo di SAU biologica, pari al 30% della SAU dell’area, nonché un numero minimo di operatori e amministrazioni comunali aderenti. Inoltre, inserire nel piano di sviluppo una previsione dell’incremento della SAU biologica costituisce un criterio di priorità per il riconoscimento.
Altre leggi regionali sono meno esigenti. La L.R. 11/2019 della Regione Lazio si limita a stabilire un numero minimo di partener aderenti all’Accordo di distretto (2 imprese agricole e 2 Comuni) mentre la L.R. 16/2014 della Regione Sardegna ribadisce semplicemente la necessità di una “presenza in loco di una filiera orizzontale economicamente rilevante, costruita a partire dalle produzioni biologiche con attività strettamente interconnesse riguardanti settori produttivi diversi da quello primario, tesi alla commercializzazione e valorizzazione della produzione biologica”.
La legge 2015/2017, d’altra parte definisce i distretti biologici “territori per i quali agricoltori biologici, trasformatori, associazioni di consumatori o enti locali abbiano stipulato e sottoscritto protocolli per la diffusione del metodo biologico di coltivazione, per la sua divulgazione nonché per il sostegno e la valorizzazione della gestione sostenibile anche di attività diverse dall’agricoltura”.
Tuttavia, stabilisce che “nelle regioni che abbiano adottato una normativa specifica in materia di biodistretti o distretti biologici si applicano le definizioni stabilite dalla medesima normativa”. Quest’ultima definizione non prevede nessun requisito parametrico, ma pone l’accento sull’aspetto partecipativo delle azioni di sviluppo locale.
La collaborazione tra diversi soggetti deve essere regolata da un contratto di distretto fondato su un Accordo di distretto sottoscritto tra i diversi soggetti operanti nel territorio, che individua il Soggetto proponente, gli obiettivi, le azioni, incluso il Programma, i tempi di realizzazione, i risultati e gli obblighi reciproci