UNA VISITA AL MUSEO: TATE GALLERY – LONDON – UK
Il celebre dipinto “Ofelia” di John everett Millais ritrae, circondata da un paesaggio naturale ricco di diverse tipologie di piante e di fiori, l’Ofelia raccontata da Shakespeare nella famosa composizione teatrale “Amleto”.
La giovane protagonista è raffigurata mentre giace in un ruscello stagno. Viso e mani emergono dall’acqua, la bocca rimane leggermente aperta e lo sguardo pare vuoto. La presenza varia della piantagione ha un significato simbolico, non solo perchè descritti nell’opera dell’autore inglese, ma anche perchè hanno ciascuna un’associazione specifica, quali : L’amore abbandonato (il salice), il dolore (ortica) e l’innocenza (le margherite).
L’opera è molto espressiva e personale e il paesaggio naturale intorno al soggetto sembra rappresentare la vita ma anche l’eterna giovinezza. I fiori bianchi ricordano la purezza.
D’altra parte il rusciello buio e pieno di muschio ci riportano alla mente la prigionia, l’esitazione, il voler esprimere ciò che si ha dentro senza riuscire, una impotenza profonda dell’anima.
La posa e l’espressione priva di emozioni della ragazza la fanno sembrare stanca, ma non solo della vita, stanca della gente, delle regole, di tutto … persino di pensare. Stà attuando quello che vorrebbe essere un suicidio, ma più che una morte volontaria, sembra un'”attesa” quasi infinita.
Un circolo che si ripete, ogni singolo respiro dovrebbe essere l’ultimo ma ne segue sempre un’altro, ed un’altro ancora.
Lo sguardo vuoto è simbolo di rassegnazione; descrive perfettamente l’abbandonarsi al destino da lei stessa scelto. Le mani poste in quella posizione, i capelli sciolti ed il bel vestito lungo ed elegante però ci trasmettono una sensazione di liberazione, la fine di una lunghissima battaglia con sé stessa, il riposo.
Autore C.V. 13 dicembre 2022
«C’è un salice che cresce storto sul ruscello e specchia le sue foglie canute nella vitrea corrente; laggiù lei [Ofelia] intrecciava ghirlande fantastiche di ranuncoli, di ortiche, di margherite, e lunghi fiori color porpora cui i pastori sboccati danno un nome più indecente, ma che le nostre illibate fanciulle chiamano dita di morto.
Lì, sui rami pendenti mentre s’arrampicava per appendere le sue coroncine, un ramoscello maligno si spezzò, e giù caddero i suoi verdi trofei e lei stessa nel piangente ruscello.
Le sue vesti si gonfiarono, e come una sirena per un poco la sorressero, mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento.
Ma non poté durare a lungo, finché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi, trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa.»
(Amleto, Atto IV, scena VII)