La storia
La presenza dell’uomo all’interno del territorio del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga è accertata a partire dal Paleolitico superiore. La conferma viene dal rinvenimento di strumenti litici a Campo Imperatore (località Fonte della Macina) e nella famosa Grotta a Male di Assergi.
Relativamente al periodo Neolitico (VI-IV millennio a.C.) sono scarse le testimonianze di frequentazione di queste montagne.
È l’età del Rame (IV-III millennio a.C.) che invece registra un utilizzo crescente delle aree del Parco, non solo come terre da pascolo e da caccia ma anche come luoghi di sepoltura: lo dimostra il rinvenimento di una necropoli presso Assergi, all’interno di una cava di ghiaia.
Durante l’età del Bronzo, nella fase mediana (1700-1350 a.C.), si assiste ad un cambiamento più profondo.
Gli insediamenti salgono progressivamente di quota, prediligendo le alture
alle zone di fondovalle o di pianura occupate in precedenza.
Con l’età del Ferro (I millennio a.C.) si registra un aumento dei centri abitati in zone prominenti, caratterizzati da fortificazioni e fossati che cingono l’abitato, e inizia a svilupparsi una rete di strade in grado di mettere in comunicazione gli insediamenti con le rispettive aree funerarie a quota più bassa.
A partire dal VI secolo a.C. il territorio è occupato dai Sabelli, che si distingueranno successivamente in Sabini, compresi nella zona nord-occcidentale, e in Vestini, insediati nella media e bassa valle dell’Aterno.
Le mire espansionistiche di Roma non si fanno attendere e nel 290 a.C. M. Curio Dentato conquista il sabino Amiternum e gran parte del territorio vestino.
La conquista romana non porta però ad una vera e propria urbanizzazione, tanto che la popolazione continua a vivere nei precedenti abitati e l’assetto urbanistico risulta ancora episodico: l’area è caratterizzata da vici, disposti in luoghi di facile raggiungimento, e oppida, lungo le pendici montane o in pianura.
È solo nella tarda Repubblica – a seguito della Guerra Sociale (91-89 a.C.) – e all’inizio dell’Impero che si assiste al sorgere dei municipia, anche se la loro presenza non modifica sostanzialmente l’assetto insediativo. Infatti si tratta in larga misura di strutture pubbliche e religiose, destinate ad abitanti che continuano a risiedere nei villaggi primitivi; una sorta quindi di “città senza abitanti” (esempi sono Amiternum e Forum Novum).
In questa fase si incrementa il sistema stradale, che oltre a includere le direttrici principali può contare anche sulla rete tratturale e su un esteso dedalo di percorsi minori e ad uso locale, retaggio del periodo preromano.
Tra le arterie principali si annoverano la via Caecilia, che attraversa i territori del Parco da sud a nord, e la via Claudia Nova, che costeggia a sud il Parco.
I territori, compresi nella Regio IV augustea, in età dioclezianea entrano a far parte della provincia di Flaminia et Picenum, per poi appartenere alla fine del IV sec. d.C. alla provincia Valeria.
Nel periodo tardo antico si assiste ad una destrutturazione degli abitati, cui segue un lento abbandono, che però non porta mai alla cancellazione completa degli stessi ma piuttosto ad un loro ridimensionamento.
Durante l’Età Medievale, a seguito del dominio longobardo e della prima età carolingia, si registrano profondi cambiamenti che vedono lo stabilirsi sul territorio di insediamenti a carattere sparso, come confermato dalla presenza capillarmente diffusa di edifici di culto di proprietà monastica, documentati a partire dall’VIII secolo.
Se i dati a disposizione non permettono di definire i territori delle diocesi o
di eventuali gastaldati, di contro la documentazione tra fine VIII e metà IX secolo fa emergere l’importante ruolo di città come Amiterno e Civitas Marsicana (attuale San Benedetto dei Marsi), circondate da proprietà di famiglie longobarde e terre fiscali.
In questo periodo si assiste anche ad un ulteriore sviluppo del tessuto viario che, oltre ad utilizzare le precedenti arterie romane, include una rete di strade che fa da confine alle varie proprietà delle grandi abbazie e che, in alcuni casi, consente il passaggio di valichi montuosi e valli fluviali.
Durante l’età carolingia si distribuiscono ricchezze ai monasteri e alla nobiltà, penalizzando le autorità cittadine e le comunità locali; questo programma di distribuzione delle terre porta a conflitti, come quelli intercorsi tra le comunità rurale dell’attuale valle di Tirino (a quel tempo parte della diocesi di Valva) e la potente abbazia benedettina di San Vincenzo al Volturno.
Con la metà del XII secolo il territorio è assoggettato ai Normanni e contestualmente vengono definiti i confini con i territori della Chiesa;
si assiste al processo di fortificazione del territorio, in prevalenza sui versanti montani, ma anche all’ubicazione di villaggi con economia pastorale in aree pedemontane.
Nell’Età moderna tutta la zona continua a conservare un aspetto marginale e di confine, anche a causa dei numerosi cambi di potere determinati dall’alternarsi dei domini angioino, aragonese e borbonico. Durante tutti questi anni si rafforza il ruolo delle città, che si arricchiscono di fortificazioni, chiese, palazzi nobiliari.
Il risultato è che ancora oggi questi luoghi sono costellati da borghi di grande fascino e ben conservati, 5 dei quali inseriti tra i Borghi più belli d’Italia (Amatrice, Castel del Monte, Castelli, Civitella del Tronto, Santo Stefano di Sessanio).
I BENI
AMITERNUM (L’AQUILA)
Città sabina ai confini con il territorio vestino, prende il nome dal fiume Aterno e dà i natali all’insigne storico Sallustio Crispo.
Sebbene sopravviva alla caduta dell’Impero Romano, vive un lento ed inesorabile abbandono, che sarà definitivo nel corso del X secolo.
Le rovine di Amiternum sono visibili oggi a poca distanza da L’Aquila.
Si conservano i resti del teatro, l’anfiteatro – di cui è riconoscibile l’intero perimetro – che si componeva di due ordini di arcate, le rovine di un edifico tardo-romano, probabilmente di carattere pubblico, con una serie di ambienti distribuiti intorno ad un cortile porticato.
CASTEL MANFRINO (VALLE CASTELLANA)
Voluto, nella seconda metà del XIII secolo, dal re svevo Manfredi a guardia dei confini tra Stato Pontificio e Regno di Napoli, insiste sui resti di un castrum romano. Il castello, localizzato sul promontorio roccioso tra il torrente Salinello e il Fosso Rivolta, presenta pianta quadrangolare e mura perimetrali larghe 20-25 metri con andamento tortuoso.
La fortificazione conserva ancora i resti di tre torri, delle quali la più imponente doveva essere quella a nord, conosciuta come torrione angioino; la torre a sud doveva serviva per le segnalazioni con specchi o fuochi con la
Rocca di Civitella del Tronto, mentre la terza, centrale o anche “maschio”, era l’abitazione del castellano.
Intorno rimangono ancora i resti di ambienti di diversa tipologia, identificabili come stalle, locali del corpo di guardia, alloggi dei soldati e una costruzione a pianta quadrata, identificata come la cappella.
Castel Manfrino ricopre un ruolo rilevante dal punto di vista strategico fino a tutto il XV secolo, momento in cui vive le stesse sorti di decadenza e abbandono di altri castelli simili, che perdono il primato di siti inespugnabili a seguito dell’introduzione della polvere da sparo.
LA FORTEZZA (CIVITELLA DEL TRONTO)
Opera di alta ingegneria militare, copre un’area di circa 25 ettari e si estende per 500 metri su uno sperone roccioso a picco sulla vallata del Salinello.
Le prime notizie di una fortificazione si hanno nel 1225, quando gli ascolani espugnano un castello, baluardo difensivo di un sistema di controllo a difesa del confine appenninico della Valle dei Vibrata, confine naturale tra Regno di Napoli e lo Stato pontificio.
Nel 1556 Bernardo Buontalenti progetta un nuovo sistema di fortificazione, con inserimento di macchine di difesa.
Solo alla fine del XVI secolo viene ridefinito l’aspetto architettonico (cittadella fortificata con 5 torri e perimetro murario con camminamenti di ronda) e la disposizione degli spazi interni (il Palazzo del Governatore, la chiesa di S. Giacomo, gli alloggi per i militari, i magazzini, le cisterne, la grande Piazza d’Armi e l’acquartieramento delle truppe francesi).
Nel 1820 la fortezza fu completamente ristrutturata, mantenendo l’aspetto rinascimentale e durante l’assedio delle truppe piemontesi, negli anni 1860-61, fu distrutta e successivamente spoliata dei materiali ed in parte smantellata.
NECROPOLI DI FOSSA (FOSSA)
Scoperta per caso nel 1992 in località Casale, costituisce la più importante testimonianza di epoca preromana.
È caratterizzata da tumuli imponenti di 10-20 metri di diametro e menhir che si elevano da terra fino a 4 metri. Delle fasi più recenti si rintracciano tombe a camera costruite in muratura.
Tra i rinvenimenti si contano 575 corredi, tra i quali spiccano quelli della prima metà del I millennio a.C. (spade, lance, fibule, dischi traforati in ferro, vasi, armi ed ornamenti in bronzo).
ROCCA CALASCIO (CALASCIO)
La più alta roccaforte d’Abruzzo e una tra le più suggestive. Fondata intorno al mille a 1494 metri s.l.m., a dominio della valle del Tirino e della Piana di Navelli, viene munita in età rinascimentale di quattro torri cilindriche angolari e di un maschio centrale quadrato.
La rocca, appartenuta prima all’antica baronia di Carapelle, poi concessa dal re Ferdinando ad Antonio Todeschini della famiglia Piccolomini, venne acquistata dai Medici con Santo Stefano di Sessanio nel 1579.
E’ il terremoto del 1702 a sancire definitivamente il suo abbandono, quando buona parte della popolazione si trasferisce nel vicino e appena nato paese di Calascio
Fonte @ Ministero dell’Ambiente