Porchetta di Viterbo PAT Lazio

Prodotto Agroalimentare Tradizionale del Lazio

La Porchetta di Viterbo deriva dal maialino intero, con o senza testa, privato delle interiora, tranne che del fegato; attualmente anche disossato, infilzato in uno spiedo per essere trasportato agevolmente e cotto al forno, dopo essere stato riempito con le sue frattaglie tagliate a pezzi e condito con spicchi d’aglio, sale, pepe, finocchio selvatico fresco e fiori di finocchio seccati. La caratteristica della Porchetta Viterbese è quella di presentarsi in tre tipologie determinate dal peso del maiale utilizzato: piccola (20-30 Kg di peso vivo), media (60 Kg) e grande (90 Kg). Il prodotto risulta caratterizzato da forma cilindrica, colore marrone, sapore sapido con accentuato aroma di finocchio e peso finale variabile. La carne è saporita ed ha un gusto consistente.

METODO DI PRODUZIONE

Tradizionalmente viene prodotta con suini locali dai 20 ai 90 Kg di peso vivo, alimentati a secco con prevalenza di cereali. Le carcasse, salate e condite con pepe, aglio e finocchio, vengono stoccate in cella a 5°C per 1 giorno e successivamente legate a livello ventrale con inserimento dello spiedo. La cottura avviene in forno a legna e dura dalle 6 alle 8 ore, a seconda del peso del maiale.

CENNI STORICI

Da autori classici come Orazio, Virgilio, Augusto e Mecenate sappiamo che nella gastronomia etrusca la prima parte del pasto era riservata alla porchetta di maiale ripiena di carne di svariati animali. Anche i romani conoscevano la delizia di questo piatto da Apicio, vissuto alla fine del I secolo a. C., che nel suo celebre ricettario “De Re Coquinaria”, ci fornisce una elaborata ricetta del “maialino farcito” cotto al forno. I cuochi di allora che si preoccupavano di onorare i palati dei loro padroni, avevano un gran da fare per preparare questo piatto, per il quale si richiedeva una materia prima di qualità (porcellus hortolanus), cioé un animale casereccio, che veniva disossato e farcito con gli ingredienti più disparati come miele, salsa di pesce, malva, bietole, porri, uova, pepe.

Ma di porchetta come la intendiamo noi comincia a parlare il Burchiello nel 1400 riferendosi alla Fiera di Todi (“io vidi in un baston cento porchette”). Interessanti sono anche le citazioni dell’Oddi nel suo libro “Prigione d’amore” del 1592 (“…mi fareste impalare come una porchetta”). La porchetta, ricoperta da una crosta croccante e luccicante, esposta nel classico banchetto del “porchettaro”, ha rappresentato fin dai secoli passati il pasto caratteristico delle feste, poiché oltre a fornire un cibo nutriente e appetitoso, contribuiva ad allietare l’atmosfera con il suo inconfondibile profumo. Dal dopoguerra si difonde l’abitudine della vendita all’aperto. Nelle varie regioni dell’Italia centrale era sempre presente nelle tradizionali fiere paesane, dove aveva la funzione di favorire le allegre bevute e placare il robusto appetito dei contadini. Anche il norcino, completata la vendita, partecipava alla festa, riservando per sé gli zampetti e la coda, che venivano cotti in una teglia sistemata sotto il maiale.

Queste frattaglie, quando non le consumava il norcino stesso, venivano messe in vendita ad un prezzo inferiore a quello della porchetta, per cui erano molto ricercate, in quanto avevano un sapore caratteristico e particolarmente gradito. Il grasso che si solidificava nel fondo di questa teglia, invece, veniva ceduto per pochi soldi, oppure regalato alle persone più povere, che lo usavano per insaporire e rendere più nutrienti le minestre. Nei percorsi eno-gastronomici e culturali proposti dal periodico Tuscia, dell’APT della provincia di Viterbo, negli articoli degli anni settanta, ritorna con insistenza il riferimento alla porchetta quale specialità di comuni come Caprarola, Vignanello (in cui si menziona la presenza dei caratteristici forni a legna per la cottura), Viterbo, Tarquinia, Ronciglione.

AREA DI PRODUZIONE

Viterbo

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