La presenza e la tipicità della “fasola posenata” è testimoniata dalle voci e dalle cure di persone anziane che ne tramandano la sua coltivazione da numerose generazioni. I fagioli nella zona di Posina, infatti, sono coltivati da secoli per l’autoconsumo familiare e hanno sempre mantenuto un’importanza non secondaria nell’economia domestica e nell’alimentazione degli abitanti della zona. Anche la pianta trova una sua utilità in quanto, avendo un fiore rosso intenso, ancora oggi viene posta intorno alle altre colture per spaventare eventuali animali, soprattutto caprioli (anche il gusto delle foglie contribuiva in questo senso). La “fasola posenata” tiene molto bene la cottura e non si disfa. Si mangia spesso in insalata con aglio, prezzemolo e olio ma si adatta ad accompagnare magnificamente il riso e le tagliatelle fatte in casa.
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Fasol de Lago PAT Veneto
Il fagiolo ha sempre avuto un ruolo importante nell’alimentazione. I fagioli d’America furono importati in Europa dagli spagnoli e i loro semi furono donati da papa Clemente VII ad un umanista bellunese, Piero Valeriano (pseudonimo di Giovanni Pietro Dalle Fosse 1477-1558) affinché ne diffondesse la coltura. Il Valeriano avviò, a quanto pare tra il 1528-29, la coltivazione nel bellunese (e in particolare a Lamon e nel Feltrino) da dove si diffuse in tutto il Veneto incrociandosi senz’altro anche con le specie già presenti formando quelle specie “autoctone”.
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La farina per polenta ottenuta dal mais “sponcio” è tradizionalmente presente nella valle feltrina, da quasi due secoli. Sono i caratteri morfologici della cariosside, di forma appuntita che punge le mani dai quali origina l’espressione popolare di “sponcio”, a determinare la peculiarità di questa varietà già descritta nel 1882 da G. Cantoni e nel 1887 da Bazzole nel testo “Il possidente bellunese”. Da allora i richiami alla varietà compaiono con sistematicità nelle tabelle tecniche pubblicate da “L’agricoltore bellunese” fino ad arrivare a dettagliate descrizioni tecniche dello Zapparoli nel 1926 e poi da Brandolini nel 1953. Nella memoria degli agricoltori locali è vivo il ricordo dell’alta qualità della farina e delle difficoltà della sgranatura che spesso avveniva a mano.
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Il “mais Marano” è una varietà di mais creata nel 1890 da Antonio Fioretti, un agricoltore che provò ad incrociare due varietà di mais locali, Pignoletto d’Oro e Nostrano, nella speranza di adattare al meglio la pianta alle terre ghiaiose del Leogra, coniugando la qualità del primo alla resa del secondo. Si rivelò una felice intuizione e, dopo un’opera di selezione durata ben vent’anni, nacque il nuovo granoturco. Nel 1940 il mais “Marano” ottenne il marchio governativo dallo Stato e ancor oggi è custodito nella banca del germoplasma dell’Istituto di Genetica e Sperimentazione Agraria “Strampelli” di Lonigo. In quegli anni la coltivazione del Marano si diffuse in gran parte del nord Italia, tanto da essere una delle varietà più utilizzate, ma dal secondo dopoguerra il prodotto conobbe una forte crisi, che divenne poi tracollo con l’affermarsi dei mais ibridi che garantivano una resa molto più elevata.
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Giacomo Agostinetti, agronomo di Cimadolmo, nei suoi “Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa”, edito a fine ‘600, segnala la presenza diffusa di un sorgoturco bianco, progenitore del’attuale varietà “bianco perla”, specie nei “Quartieri della Piave”. La sua massiccia diffusione si colloca tuttavia nella seconda metà dell’800, grazie alla sua maggiore conservabilità che la fa preferire alle concorrenti varietà dell’epoca. Una descrizione della pianta e delle caratteristiche della granella del “mais biancoperla” viene riportata dettagliatamente in “Granoturchi da seme per riproduzione da granella e per semine da erbaio” edito da Consorzio Agrario Provinciale di Udine, 1950.
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Il “fagiolo gnoco borlotto, lingua di fuoco” di Spinimbecco, frazione di Villa Bartolomea, veniva coltivato già prima degli anni ’30, anche se su superfici limitate e per lo più per il consumo famigliare. Solamente una piccola parte della produzione veniva commercializzata al mercato di Legnago (VR) o porta a porta. Successivamente alla Seconda Guerra Mondiale la coltivazione di tale prodotto conobbe nuovo impulso, con un notevole aumento delle superfici e una produzione stimata intorno ai 2.100 t. Dopo gli anni ’50 cominciarono a sorgere centri privati di raccolta nella frazione di Carpi e a Villa Bartolomea e all’inizio degli anni ’60 sorsero cooperative nate espressamente per la raccolta del pregiato fagiolo. A tale prodotto, così importante per l’economia della zona, vennero dedicate molte mostre settembrine, di cui si trova testimonianza in molti giornali locali e regionali.
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Il “fagiolo gialét” è conosciuto da oltre un secolo come un prodotto pregiato consumato in occasioni speciali, e venduto a famiglie benestanti ed alla Città del Vaticano. Il valore riconosciuto a questo fagiolo risiede nel sapore delicato e nell’alta digeribilità, anche per la buccia molto sottile che quasi si scioglie durante la cottura. Queste caratteristiche lo rendono particolarmente adatto per l’alimentazione dei bambini e anziani, e di chi fatica a sopportare la maggior ricchezza di cellulosa nella buccia di altri fagioli.
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Testimonianze raccolte presso i produttori confermano la presenza della coltivazione dell’antica varietà del “fagiolo di Posina scalda” da lunghissimo tempo. Durante la mostra mercato, che si svolge ogni anno a Posina l’ultima domenica di ottobre, questo fagiolo è ricercatissimo essendo minima la quantità di fagiolo scalda destinata al mercato. È coltivato per lo stretto consumo familiare e la migliore produzione è destinata a rimanere tra le mura domestiche. I produttori locali sostengono, curiosamente, che questi fagioli sebbene essiccati correttamente, se portati fuori dal paese possono essere attaccati dal baco del fagiolo e quindi ne sconsigliano la conservazione fuori Posina, Arsiero e Laghi.
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I primi fagioli (Vigna sinensis o unguiculata) erano originari dell’Africa sub-sahariana, mentre i borlotti, i cannellini e tutti gli altri innumerevoli tipi vennero importati dall’America. La specie dei fagioli americani, originaria del Messico e Guatemala e scientificamente chiamata Phaseolus vulgaris, si diffuse rapidamente in Europa, fino a soppiantare quella africana. Nella nostra regione l’introduzione di questo legume non fu facile, soprattutto per via delle credenze secondo le quali il fagiolo era scarsamente digeribile. Se riuscì lentamente a ritagliarsi un posto tra i prodotti coltivabili, fu perché consentiva la consociazione con altre colture, permettendo agli agricoltori di ricavare dallo stesso appezzamento un maggior volume di prodotto.
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L’agronomo Filippo Re, così presenta all’inizio del 1800 lo stato della coltura nel Feltrino: “I nostri fagioli bianchi sono molto ricercati, e danno un rifl essibile commercio attivo al paese. Si traducono per Piave a Venezia, indi si imbarcano per Cadice, e Lisbona ecc”. Nell’elenco del commercio della Provincia del 1833, i fagioli figurano come genere d’esportazione e nel 1880, parlando dei fagioli, Riccardo Volpe, segretario della Camera di commercio ed Arti di Belluno, li definisce una “Importante merce di esportazione”. Quest’ultimo richiama genericamente la loro estrema varietà e afferma che vi è una certa regressione delle varietà bianche, che risulterebbero meno resistenti al clima della provincia.” Il “fagiolo bonèl di Fonzaso” è rimasto con il suo antico nome, anzi si è legato indissolubilmente al suo paese, tanto da essere indicato con il nome dialettale di “bonèl de Fondaso“ ed essere, agli inizi del 1900 e a cavallo tra i due conflitti mondiali, il fagiolo più coltivato nel territorio fonzasino.
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