Prodotto Agroalimentare Tradizionale dell’Emilia Romagna
tibùia, sfuiàda.
Torta salata composta da vari strati sovrapposti di un impasto a base di fior di farina (00), strutto, burro, formaggio parmigiano reggiano giovane, sale, acqua. La preparazione della torta degli ebrei prevede l’impasto di farina, acqua e sale, fatto riposare per un’ora. L’ammasso viene poi tagliato in sei pezzi uguali, ognuno dei quali viene tirato a sfoglia fine. La pasta viene unta con strutto di maiale (in alternativa: grasso d’oca o margarina vegetale) e poi ripiegata otto volte e lasciata riposare. Questa procedura viene ripetuta quattro volte per ogni panetto: alla fine se ne ricavano sei strati sottili che sono adagiati uno ad uno, con molto formaggio Parmigiano-Reggiano grattugiato fra loro, in una teglia imburrata. La sfoglia superiore viene incisa a griglia e cosparsa di fiocchi di burro. La torta salata viene infine cotta e dorata in forno a 200° gradi per 30 minuti. Andrebbe mangiata “sfogliandola”.
Tradizionalità
Finale Emilia ha esportato in Oriente condottieri militari di gran valore e ha ricevuto in cambio prelibatezze gastronomiche. Sembra infatti che la sfogliata non sia altro che la torta salata che i Turchi chiamano “Burek”, importata a Finale dalla famiglia ebraica dei Belgradi. La comunità giudaica ha custodito gelosamente il segreto della ricetta per lungo tempo. Solo grazie a Giuseppe Alinovi, ebreo convertito, anche i cristiani ne sono venuti a conoscenza.
Il segreto della sua preparazione, custodito gelosamente per secoli dagli ebrei del Finale, fu divulgato ai cristiani da Mandolino Rimini, un ebreo convertitosi al cattolicesimo nel 1859. Costui, dopo il battesimo con cui gli era stato impartito il nome di Giuseppe Alinovi, si vendicò del disprezzo dimostratogli dai suoi ex correligionari giocando loro uno tiro atroce.
Rese pubblica la ricetta della torta e si mise a venderla sotto ai portici di Santa Caterina (l’odierna Via Mazzini), dopo aver sostituito il burro e l’olio utilizzati dalle famiglie del ghetto con lo strutto, il quale, essendo derivato dal maiale, è inviso agli ebrei come l’acqua santa al diavolo.
Curiosità
Alinovi trovò subito imitatori e concorrenti ; il più noto fu al zòp Tiburzi, che alzò il suo trespolo a pochi passi da lui. A turno, ogni mattino, i due venditori urlavano il loro richiamo e ne risultava una tenzone in rima, bonaria e ridanciana. “Calda c’la bùi!” – gridava Tiburzi. “Merda ad pui” – rimbeccava Alinovi. “Calda c’la scòta!” – vantava Alinovi. “Merda ad tòca!” – era la replica di Tiburzi”.1 La parte iniziale del suo cognome, combinata con il grido da lui tante volte ripetuto “c’la bùi”, ha probabilmente dato origine alla parola tibùia.
Referenze bibliografiche
Già nel 1626 la torta aveva fatto la sua comparsa al Finale: esiste infatti presso l’Archivio di Stato di Modena, la denuncia inoltrata in quell’anno contro un cristiano, certo Giacomo Bertancini, il quale aveva mangiato in prigione, in tempo di Quaresima, la “torta grassa” rubata ad un ebreo.
- Rina Poletti, La torta degli Ebrei o sfogliata, in Storie di terre e di rezdore, Slow Food Italia.
- Torta degli ebrei, in Il modenese da gustare, Milano, Editiriale Giorgio Mondadori, 2008, p. 122.
Territorio di produzione
Comune di Finale Emilia, provincia di Modena.